Novak Djokovic in Serbia non è solo il tennista numero uno al mondo. I tifosi serbi lo percepiscono come un simbolo della patria, un portabandiera d’eccellenza per il Paese balcanico. Difficile dunque per la stampa locale resistere alla tentazione di cogliere connessioni, anche solo teoriche, tra le vicende del tennista in occasione dell’Australian Open e il destino dell’investimento più grande che un gruppo a partecipazione australiana abbia mai tentato in Serbia. Ed ecco che, in questi giorni concitati per lo sportivo e i suoi fan, spuntano articoli che collegano in qualche modo la saga di Melbourne con il “no”, annunciato ma non ancora pronunciato dalle autorità serbe, allo sfruttamento minerario nella valle di Jadar da parte del gruppo anglo-australiano Rio Tinto. Il sito del quotidiano serbo “Republika”, ad esempio, cita direttamente il governo di Scott Morrison, più precisamente John Kunkel, capo dell’ufficio del premier. Kunkel, ricorda il sito, dal 2016 al 2018 ha lavorato per Rio Tinto come capo del dipartimento per la cooperazione con il governo australiano e nel 2018 è passato all’ufficio del primo ministro. “Ecco perché ci sono sempre più commenti secondo cui Djokovic è solo un danno collaterale del conflitto di interessi di questi due personaggi”, prosegue il sito serbo insinuando margini di dubbio. Le osservazioni contenute nell’articolo vanno anche oltre, fino a parlare di una “vendetta” trasversale nei confronti del governo serbo che intenderebbe fermare il progetto minerario.
Il sito dà in qualche modo voce ad una parte dell’opinione pubblica nazionale che ha visto lo stesso Djokovic diffondere sui propri social le immagini delle proteste ambientaliste contro Rio Tinto. La stessa opinione pubblica ha anche assistito, poco dopo, alla marcia indietro della premier Ana Brnabic e del presidente della Repubblica, Aleksandar Vucic, nelle trattative con il gruppo minerario. Le dichiarazioni a tale proposito dei vertici serbi sono giunte proprio nei giorni in cui a Melbourne si consumavano gli eventi attorno al visto d’ingresso del tennista. Il 7 gennaio la premier Brnabic ha affermato che “il governo è vicino” alla decisione di annullare tutti gli accordi presi in precedenza con Rio Tinto. “Bisogna vedere solo quale è lo scotto e quale il prezzo da pagare per la rescissione degli accordi”, ha detto la premier aggiungendo che di questo avrebbe discusso con il capo dello Stato. Lo stesso Vucic ha detto pochi giorni dopo “di avere l’impressione” che il governo deciderà di fermare il processo delle trattative.
La questione dell’investimento di Rio Tinto, come ha ancora ricordato la prima ministra, affonda le radici nei governi precedenti a quelli guidati dal Partito progressista serbo (Sns) di Aleksandar Vucic. Sono però le ultime mosse del governo Brnabic ad avere innescato la miccia delle proteste nei mesi scorsi in Serbia. La proposta di fine novembre di una modifica alla legge sull’esproprio, che eliminava di fatto alcune barriere legislative a tutela dei proprietari di terreni, è stata interpretata dall’opinione pubblica come una norma a favore di Rio Tinto, per consentire un più rapido avvio dello sfruttamento dei ricchissimi giacimenti di litio nella valle di Jadar, nei pressi della città di Sabac. Le modifiche sono state avvertite come un pericolo, al di là dell’investimento del gruppo minerario, per i piccoli proprietari di terreni o di immobili, perché avrebbero consentito al governo di dichiarare con la massima discrezionalità un investimento “di rilevanza nazionale” e dunque procedere con gli espropri in modo automatico.
La seconda proposta controversa è stata quella relativa al processo referendario. In questo caso le modifiche contemplavano, nella prima proposta presentata dal governo, l’abolizione del quorum per la validità del referendum e l’introduzione di una tassa da pagare per i cittadini che aderivano alla raccolta delle firme per le iniziative civiche. Anche in questo caso l’opinione pubblica ha legato le modifiche a Rio Tinto, perché nei mesi precedenti era stata avanzata l’ipotesi di svolgere un referendum per l’approvazione dell’investimento anglo-australiano. Le manifestazioni hanno affiancato queste istanze a quelle ambientaliste, sempre più sentite in un Paese la cui capitale balza spesso al primo posto nelle classifiche delle città più inquinate al mondo. Le proteste, partite a fine novembre e non ancora terminate, hanno incontrato il favore di Novak Djokovic, da sempre paladino del rispetto dell’ambiente e della natura. “Aria pulita, acqua e cibo sono la chiave della salute. Senza questo, ogni parola sulla ‘salute’ è superflua”, aveva scritto Djokovic postando sui social una foto delle proteste a Belgrado.
Grazie al tennista le manifestazioni hanno avuto ancora maggiore risonanza a livello internazionale, ma i media stranieri hanno spesso sottolineato il lato “ambientalista” dimenticando le diatribe legislative interne. Queste non sono state invece dimenticate dal governo, che dopo le prime settimane di protesta ha inoltrato al Parlamento delle nuove proposte di modifica alla legge sul referendum, mentre la legge sull’esproprio non è stata firmata dal capo dello Stato e alla fine è stata ritirata. Riguardo alla legge sul referendum, l’esecutivo ha proposto dei nuovi emendamenti che fra le altre cose non prevedono più la tassa per la verifica delle firme e vietano la convocazione di un referendum sulla stessa questione a meno di quattro anni di distanza. Le proteste hanno dunque visto le autorità politiche andare incontro alle richieste popolari, in un periodo che precede di pochi mesi le elezioni parlamentari e quelle presidenziali del tre aprile. Questo non è bastato però a fermare la piazza, che ha annunciato nuovi blocchi stradali in tutto il Paese e promette di non fermarsi fino a che non ci sarà la rinuncia ufficiale all’investimento Rio Tinto.
Nel frattempo il caso Djokovic prosegue sui banchi giudiziari australiani, e se le autorità politiche serbe non hanno ancora commentato le ultime decisioni del ministro dell’Immigrazione Hawke di revocarne il visto una seconda volta, in attesa del verdetto sul ricorso presentato dalla dai legali del tennista, restano impressi nella mente i cori indignati dei vertici istituzionali nei giorni precedenti alla sentenza del giudice Kelly. A parlare di politicizzazione sono stati infatti non solo i fan, ma anche eminenti figure pubbliche come il presidente del Parlamento Ivica Dacic, già ministro degli Esteri di Belgrado. Djokovic, secondo quanto dichiarato da Dacic prima della sentenza del giudice Kelly a favore del tennista, sarebbe stato oggetto di un “maltrattamento, una vessazione politica disgustosa” nei confronti di una persona che, a suo dire, ogni Paese accetterebbe di fare suo cittadino e non solo di vederlo partecipare ad una gara. “Non si è autoinvitato, gli hanno concesso la cosiddetta esenzione. Conosco questi casi di esenzione, perché abbiamo dovuto chiederla anche noi quando siamo andati a Glasgow, alla conferenza sui cambiamenti climatici organizzata dalle Nazioni Unite. In alcuni Paesi non puoi entrare se sei stato vaccinato, come me, con il vaccino russo (contro il Covid-19)”, ha detto Dacic. Il presidente dell’Assemblea nazionale ha infine ribadito che il comportamento nei confronti di Djokovic è “vergognoso”, aggiungendo che la situazione in Australia è “politicamente instabile perché tutti inseguono i rating” e si sta verificando un uso del caso per scopi politici. “Dal punto di vista dello Stato è difficile fare qualcosa, perché non abbiamo con loro dei particolari rapporti (bilaterali)”, ha concluso Dacic senza proferire menzione, a onor di cronaca, su Rio Tinto e la tanto agognata “valle del litio”.
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