E’ una crepa nel muro della mafia cinese quella aperta dall’indagine dei carabinieri della compagnia di Roma Centro con l’operazione coordinata dall’Antimafia capitolina, che ha visto, questa mattina, 19 persone arrestate per un complessivo di 47 indagati. Secondo gli inquirenti, il gruppo, in larghissima parte cinese, era dedito al traffico e allo spaccio di shaboo, pericolosissima droga sintetica, oltre a un fiorente giro di prostituzione, anch’essa di ragazze cinesi. Punto di convergenza dello spaccio di droga e dello sfruttamento di giovanissime asiatiche, era – secondo gli investigatori – una discoteca in zona Torrenova dove ai clienti venivano offerti pacchetti “all inclusive” fatti di alcool, droga e sesso.
Non è stata una “retata” come le altre: i carabinieri utilizzando lo strumento ormai classico delle intercettazioni, hanno dovuto superare, però, le difficoltà nell’interpretare una lingua complessa come il cinese che non fa distinzione tra maschile e femminile, in un contesto in cui la componente femminile degli indagati è preponderante. Roma non era la Capitale dello spaccio, ma una “provincia” di Prato, il Comune toscano dove risiedevano i capi. Disegnare il quadro investigativo è stato possibile grazie al “pentimento” di uno dei tasselli dell’organizzazione cinese che ha deciso di collaborare con la giustizia. Una pedina fondamentale in un contesto, quello della mafia cinese, in cui casi di collaboratori di giustizia sono più unici che rari.
Grazie alle dichiarazioni dell’uomo, oggi calato in un programma di protezione, gli investigatori sono risaliti al flusso di shaboo che arrivava a Roma senza andare in contrasto con le organizzazioni malavitose locali che gestiscono il mercato della droga “classica”. Agli asiatici, quindi, era concesso liberamente di coprire quella ricca fetta di mercato dello shaboo. Si è arrivati così a “Elefante da Prato” ed “Elefante da Padova”, i nomi tradotti dal cinese, degli indagati che, secondo il collaboratore, decidevano quando e come inviare lo stupefacente a Roma, anche se a gestire il traffico erano due donne, una delle quali riscuoteva il rispetto di tutto il gruppo, anche del maggiore fornitore che era in Grecia, anche lui cinese.
Quest’ultimo non trattava se non aveva la certezza che la donna non fosse infastidita. “Innanzitutto non deve avere contrasti con W.L.”, diceva il greco alla acquirente “Lulù” alla quale faceva il prezzo di 50 euro a grammo ma, un euro per ogni grammo di droga spedito dalla Grecia all’Italia, era assicurato a W.L., la donna che gestiva tutto. Lo shaboo sulla piazza viene venduto a un prezzo che si aggira tra gli 80 e i 100 euro. “Ti garantisco che non ti fa sentire la fatica per tutto il giorno, se ci giochi di più, anche due giorni senza dormire”, assicurava il grossista a Lulù, senza però informarla dei danni permanenti che la droga sintetica prodotta in Asia e principalmente in Cina, causa alla mente di chi la assume.
Contrariamente alle classiche operazioni antidroga che solitamente cominciano dai livelli più bassi della catena di spaccio, quella messa a segno in questo caso ha colpito un livello medio alto, anche perché, lo spacciatore così come lo si intende nelle classiche “piazze” è stato sostituito da incolpevoli corrieri. La droga, infatti, veniva spedita molto spesso ai clienti romani o comunque italiani, dopo il pagamento, direttamente dalla Grecia attraverso i normali ignari spedizionieri. Seguendo la pista della droga e di Lulù, gli investigatori sono arrivati anche alla discoteca dove lei stessa lavorava per intrattenere clienti e per spacciare droga.
In una intercettazione la donna sosteneva di guadagnare 300 euro a serata ma che doveva dividerli con l’organizzazione. Le comunicazioni, ovviamente in cinese, tra le ragazze e chi le gestiva, passavano attraverso un gruppo su We Chat dove ogni donna era indicata con un numero e a ogni cliente era dato un soprannome. Così, anche in questo caso, la donna al vertice del “ramo d’azienda” dedito alla prostituzione gestiva il personale assegnando clienti alle ragazze.
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