Per la prima volta nella storia di Israele un partito arabo e islamista, Ra’am, entra nella maggioranza di governo, che ha posto fine ai 12 anni, non continuativi, dell’era di Benjamin Netanyahu. Dopo oltre due anni di stallo istituzionale e quattro tornate elettorali, lo Stato ebraico ha un esecutivo nel pieno delle sue funzioni. Domenica 13 giugno, infatti, l’alleanza eterogenea formata da otto dei 13 partiti presenti in parlamento, la Knesset, ha votato la fiducia al governo che sarà guidato dal capo del partito della destra nazionalista Yamina, Naftali Bennett. Tuttavia, gli otto partiti della coalizione – composta complessivamente da 61 deputati – hanno l’appoggio garantito di soli 60 dei 120 membri della Knesset. Un deputato del partito Ra’am, infatti, ha deciso di astenersi, mentre l’opposizione capeggiata dal partito Likud di Netanyahu e dai partiti religiosi (59 deputati) ha votato in blocco contro il nuovo esecutivo.
La risicata maggioranza su cui potrà contare il governo di Bennett evidenzia tutti i limiti legati alla sua stabilità. Il premier uscente Netanyahu ha dichiarato che l’opposizione, capeggiata proprio dal suo partito, il Likud, “farà cadere questo pericoloso esecutivo”. Al di là delle dichiarazioni di Netanyahu, i numeri dimostrano che si tratta di un governo che nasce debole. La nuova coalizione è composta da otto partiti: Yamina (sostegno di sei dei sette deputati), Yesh Atid (17), Blu e Bianco (8), Labour (7), Yisrael Beiteinu (7), New Hope (6), Meretz (6), il partito islamista Ra’am (sostegno di tre su quattro deputati). Bennett e il leader del partito centrista Yesh Atid, Yair Lapid, hanno concordato un accordo di rotazione, secondo cui Bennett servirà come primo ministro per due anni, mentre Lapid sarà ministro degli Esteri. Successivamente, nel 2023, Lapid assumerà la guida del governo per i due anni successivi, mentre Bennett sarà ministro dell’Interno.
Il nuovo governo, formato da partiti con agende diverse e talvolta contrapposte, potrebbe segnare il declino politico di Netanyahu, che adesso non godrà più dell’immunità nei tre processi a suo carico per presunta corruzione. Il nuovo governo, nato dalla volontà condivisa di estromettere Netanyahu, segna l’avvio di una fase di transizione che sarà gestita dalla cosiddetta “nuova generazione”. Tuttavia, il percorso del nuovo governo non sarà né lineare né privo di ostacoli, a causa delle divergenze nelle agende dei diversi partiti. Un aspetto, inoltre, da tenere in considerazione è il nuovo riassetto globale, avviato con l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden. A tal proposito sarà interessante vedere le prossime mosse del governo di Gerusalemme nei rapporti commerciali con la Cina, con cui il commercio è cresciuto di circa il 400 per cento nell’ultimo decennio, pari a oltre 14 miliardi di dollari. Una menzione speciale va fatta per il tentativo cinese di penetrare nel settore delle infrastrutture israeliane, delle start-up e della sicurezza. Già la precedente amministrazione statunitense guidata da Donald Trump aveva fatto pressioni su Israele affinché non fosse la cinese Hutchison a costruire l’impianto di dissalazione Sorek2, ma aveva “tollerato” gli interessi cinesi nello Stato ebraico, principale alleato Usa in Medio Oriente. Con l’arrivo alla Casa Bianca di Biden appare probabile che gli Stati Uniti incrementino ulteriormente la loro pressione sul governo israeliano, che sarà dunque chiamato ad allinearsi a Washington in modo più netto rispetto ai rapporti con Pechino.
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