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Paesi Nato pronti ad accogliere i lavoratori civili afgani a rischio ritorsioni

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Il ritiro dei contingenti stranieri presenti in Afghanistan annunciato ufficialmente lo scorso primo maggio ha portato all’attenzione il tema delle migliaia di civili locali che hanno collaborato in questi 20 anni con le truppe Nato, lavorando come interpreti, esperti culturali e addetti ai servizi. Secondo molti osservatori la loro vita è a rischio, considerando che in più di un’occasione sono stati bollati dai gruppi estremisti islamici (non solo i talebani) come traditori per aver collaborato con le forze Nato. Il tema riguarda tutti Paesi Nato che hanno partecipato alla Resolute Support Mission, compresa l’Italia. Intervistato da “Agenzia Nova” il generale di corpo d’armata in congedo Giorgio Battisti, primo comandante del contingente italiano della missione Isaf a Kabul dal dicembre 2001, ha sottolineato che al momento non vi sono numeri precisi, almeno per quanto riguarda l’Italia, con una stima intorno ai 300-500 civili locali che potrebbero essere accolti in Italia. “Il problema di questi local worker è di essere considerati dei traditori quindi di poter essere uccisi. Secondo fonti stampa, ci sono già stati casi di interpreti di contingenti stranieri, che sono stati ammazzati. Il pericolo è quindi reale”, nota Battisti. Il rischio di ritorsioni da parte dei talebani, avrebbe spinto l’Italia a dare disposizioni per trasferire non solo i lavoratori, ma anche i familiari fino al primo grado di parentela. Battisti ricorda come già nel 2014, quando iniziò un primo ridimensionamento del contingente italiano, vennero trasferiti circa 130 civili afgani che avevano lavorato per i militari.


Al pari dell’Italia, altri Paesi della coalizione hanno annunciato piani per trasferire insieme ai militari anche il personale civile locale, in particolare Regno Unito, Germania e Francia, con quest’ultima che ha già ritirato nel 2013 tutte le sue truppe compresi i lavoratori afgani. Come indicato nei giorni scorsi dal quotidiano francese “Le Monde”, la Francia concederà l’asilo a un centinaio di cittadini afgani e alle loro rispettive famiglie per aver collaborato con i suoi militari in Afghanistan. L’operazione sarà finanziata dal ministero degli Esteri e coinvolgerà in tutto 600 persone. Nei giorni scorsi, Londra a sua volta ha annunciato piani per permettere ai lavoratori civili afgani di stabilirsi nel Regno Unito, con una stima di circa 3.000 persone di cittadinanza afgana che dovrebbero fare richiesta di asilo per ragioni di sicurezza. Secondo la stampa britannica, sinora a circa 1.300 di loro è concesso il trasferimento. Per il generale Battisti, la situazione sarà più complessa per gli Stati Uniti. Le stime riportate da molti organi di stampa Usa, parlano di almeno 18.000 civili afgani, lavoratori e famiglie. “Un numero consistente che richiede un’organizzazione complessa”, sottolinea il generale Battisti.

In merito al rischio di attacchi per il ritiro in corso, il generale Battisti ricorda come nel Paese vi siano una moltitudine di fazioni e gruppi armati e terroristici, che si aggiungono ai talebani. Tra questi lo Stato islamico, che dopo le sconfitte territoriali in Siria e Iraq ha iniziato ad espandersi anche in Afghanistan con il nome Stato islamico dell’Iraq e del Levante – Provincia del Khorasan. Secondo valutazioni dell’intelligence statunitense e delle Nazioni Unite, vi sarebbero almeno 20 gruppi terroristici attivi nel Paese. Molti di questi gruppi hanno sede o hanno una qualche forma di presenza coordinata nel vicino Pakistan. Tra i gruppi più importanti figurano: Al Qaeda, Stato Islamico, la rete Haqqani, Lashkar-e-Taiba, Lashkar-e-Jhangvi, Jaish-e-Mohammad, i talebani pakistani (Tehrik-e Taliban Pakistan) e il movimento islamico dell’Uzbekistan. Il generale Battisti ricorda che dopo la firma il 29 febbraio 2020 degli accordi di Doha con gli Stati Uniti per il ritiro dei militari stranieri, l’interesse dei talebani è quello di evitare un ritorno delle forze straniere. “Non ritengo che i talebani che hanno firmato l’accordo di Doha siano intenzionati a colpire i militari stranieri. Il rischio è rappresentato da quelle le formazioni che non si riconoscono nell’accordo di Doha che potrebbero creare delle provocazioni, per fare in modo che ci siano reazioni da parte dei contingenti che si ritirano”, afferma Battisti. Come osserva il generale, gli Stati Uniti stanno dispiegando una forza aeronavale e terrestre per poter intervenire nel caso di attacchi dei talebani o di altri gruppi terroristici contro il proprio contingente in ripiegamento.

Battisti ha inoltre descritto la complessità logistica del ritiro che sta avvenendo con le tempistiche strette indicate dallo stesso presidente Usa Biden, che ha anticipato il completamento del trasferimento dei contingenti dall’11 settembre ai primi di luglio. “In tutti questi anni i contingenti si sono appesantiti in termini di materiali ed equipaggiamenti portati sul campo. Si tratta di preparare tutti i mezzi per il rientro, ma prima occorre valutare cosa cedere alle forze di sicurezza afgane, cosa riportare in patria e cosa eventualmente distruggere”, sottolinea il generale. “Un’accelerazione di questa natura ha costretto chi opera sul terreno a velocizzare le procedure”, aggiunge Battisti, ricordando come i trasferimenti avvengano esclusivamente con un ponte aereo. “Le capacità delle piste di atterraggio condizionano il numero di voli durante il giorno e la notte. Si dovranno dunque sincronizzare i voli che possono atterrare e caricare il materiale”, afferma il generale.

Se i contingenti avessero un anno di tempo o dettato loro le tempistiche il movimento sarebbe stato più lineare. Le scelte quindi devono essere ancora più serrate”, Battisti sottolinea come i militari italiani si siano mossi già in precedenza a preparare inventari e un piano “di emergenza” per affrontare la situazione. Parlando della situazione nel Paese e dei rischi per l’Afghanistan derivanti dal ritiro, Battisti osserva che la situazione non è delle migliori, come ammesso anche dalle stesse istituzioni statunitensi citate dai media. “Nonostante i progressi tangibili, le forze di sicurezza afgane, non sono ancora completamente pronte”, sostiene il generale. Infatti, le Forze armate afgane sono state “ricostruite da zero” con un processo di vera e propria ricostituzione iniziato solamente tra il 2007 e il 2008. Inoltre, per Battisti, ha pesato sulla formazione anche la forte eterogeneità dei componenti delle forze di sicurezza composte da ex mujahideen dell’insurrezione contro i sovietici, ufficiali del governo filo-sovietico di Mohammad Najibullah, da quadri formati dalle forze Nato e da altri quadri che hanno invece ricevuto la propria formazione in Cina, Pakistan o India.

“Non ci dobbiamo quindi meravigliare che le forze di sicurezza abbiano delle performance che non rispettano le aspettative”, sottolinea Battisti. Inoltre, il generale ricorda l’altissimo prezzo in vite umane pagato dalle Forze armate afgane “nei periodi caldi” dell’insurrezione dei gruppi armati, anche dopo l’accordo di Doha, con stime che parlano di almeno 1.000 morti al mese tra i militari, cifra “insostenibile” se guardata con un occhio occidentale, considerando che tali numeri erano registrati dalle forze Usa nel periodo più difficile della guerra in Vietnam. Battisti sottolinea il timore di “uno sfaldamento” delle forze di sicurezza afgane anche alla luce di un governo attualmente considerato debole, come già capitato in passato dopo il ritiro dei sovietici nel 1989.

“Vent’anni di nostra presenza sono serviti comunque a far conoscere alla società afgana dei modelli di vita diversi. Modelli che non devono essere applicati ovviamente tout court, ma modelli attraverso i quali la società può prendere esempio”, afferma il generale, facendo riferimento al lascito di 20 anni di presenza Nato in Afghanistan. Soprattutto nelle città infatti, i giovani sotto i 30 anni, che rappresentano il 50 per cento della popolazione, si sono abituati ad utilizzare internet e cellulari “e difficilmente potrebbero accettare il ritorno di regime violento e oppressivo”. Secondo un recente sondaggio di Asia Foundation su di un campione di 130.000 persone, l’86 per cento degli afgani non è favorevole al ritorno dei talebani in particolare nelle aree urbane. Il timore riguarda soprattutto le donne che rischiano di essere le grandi perdenti dell’accordo di Doha e ritornare ad essere virtualmente “cancellate dalla società”. Secondo Battisti “anche i talebani, almeno quelli che hanno siglato l’accordo di Doha, sono consapevoli che non possono più governare solo con il terrore”. Inoltre, i talebani, in caso dovessero prendere il potere, hanno comunque bisogno dei finanziamenti della comunità internazionale, in primis degli Usa.

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