Sta provocando forti polemiche in Myanmar la pubblicazione di un documento, la cui attendibilità non può essere verificata in maniera indipendente da “Agenzia Nova”, in base al quale la Cina avrebbe organizzato alla fine di febbraio un incontro d’emergenza con i vertici della giunta militare che hanno preso il potere a Naypyidaw il mese scorso, chiedendo garanzie sulla sicurezza dei propri progetti infrastrutturali. Alla riunione, avvenuta mentre le forze di sicurezza birmane intensificavano la repressione dei manifestanti anti-golpisti aprendo il fuoco sulla folla, avrebbe preso parte Bai Than, direttore generale del dipartimento per la sicurezza esterna del ministero degli Esteri di Pechino, assieme ad alti funzionari dei ministeri degli Esteri e dell’Interno del Myanmar. Bai avrebbe chiesto alla giunta militare di mettere in sicurezza oleodotti e gasdotti ritenuti cruciali per l’approvvigionamento della Repubblica popolare. Una richiesta resa necessaria dal crescente sentimento anti-cinese che nel frattempo si andava diffondendo in ampi strati della popolazione birmana, che accusa Pechino di aver appoggiato il colpo di Stato dello scorso primo febbraio.
Le preoccupazioni cinesi sono rivolte in particolare alla doppia condotta che si allunga per 800 chilometri dal porto di Kyaukphyu, nello Stato di Rakhine sul Golfo del Bengala, fino al confine con la Repubblica popolare, passando per le regioni di Magwe e Mandalay (tra le più interessate dai disordini di queste settimane) e per lo Stato settentrionale di Shan. Nel corso dell’incontro, Bai avrebbe sottolineato come Pechino si attenda che il Myanmar rafforzi le misure di sicurezza a protezione del progetto, considerato una componente fondamentale della maxi-iniziativa della Nuova via della seta (Belt and road initiative, Bri). Inoltre, il dirigente cinese avrebbe ricordato come eventuali danni alle due condotte provocherebbero “forti perdite a entrambi i Paesi, minando anche la fiducia degli investitori esteri”.
Sviluppato dalla Compagnia petrolifera nazionale cinese (Cnpc), che è anche il principale azionista, il progetto è stato presentato nel 2013 e da allora ha sollevato forti proteste tra le comunità birmane e le organizzazioni ambientaliste. L’azienda statale cinese riferisce che l’oleodotto è in grado di trasportare 22 milioni di tonnellate di greggio l’anno, mentre il gasdotto può convogliare 12 miliardi di metri cubi di gas naturale. Secondo il quotidiano online “The Irrawaddy”, edito da dissidenti birmani di base in Thailandia, il documento mostra come la Cina sia “disperatamente” preoccupata dalla sicurezza dei propri progetti in Myanmar e speri che la giunta militare operi sui media locali per ridurre lo scetticismo che circonda l’immagine di Pechino. Nel corso della riunione, in effetti, Bai avrebbe esplicitamente invitato i funzionari birmani a spingere i media “a scrivere della Cina solo in maniera positiva”.
“Non dovrebbero essere ammesse critiche sui progetti infrastrutturali, si tratta di questioni importanti per lo sviluppo socio-economico del Myanmar. Le istituzioni competenti dovrebbero controllare le notizie false riguardanti i progetti”, avrebbe sottolineato il dirigente del ministero degli Esteri cinese durante l’incontro. Il documento è stato condiviso da quasi un milione di utenti su Facebook e Twitter in lingua birmana, cinese e inglese. Molti hanno rilevato come i contenuti del presunto incontro contrastino con la posizione pubblica della Cina, secondo cui gli ultimi sviluppi in Myanmar sono “una questione interna”. Sulla base di questo approccio, Pechino ha fatto mancare nelle scorse settimane il proprio appoggio a una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che avrebbe condannato il colpo di Stato militare del primo febbraio.
“Se credete ancora che quello che accade in Myanmar sia una questione interna, allora anche far saltare in aria una condotta che passa attraverso il Myanmar è una questione interna. Vediamo che dite”, ha scritto un utente su Twitter rivolgendosi al ministero degli Esteri cinese. “Se ci tenete alla sicurezza del vostro gasdotto, non coprite la giunta militare con un veto. Il popolo del Myanmar è molto unito”, ha affermato un altro. Nelle scorse settimane già in diverse occasioni folle di manifestanti si sono raccolte davanti all’ambasciata della Repubblica popolare cinese a Yangon per protestare contro il veto opposto da Pechino al Consiglio di sicurezza.
Altri tre manifestanti anti-golpisti in Myanmar hanno perso la vita oggi durante scontri con le forze di sicurezza. Lo riferisce il portale “Channel News Asia” citando testimoni locali. Due delle vittime si sono avute a Myitkyina, nel nord del Paese, dove la polizia è intervenuta con granate stordenti e gas lacrimogeni per disperdere la folla in protesta contro il colpo di Stato militare dello scorso primo febbraio. Altre tre persone sarebbero rimaste ferite nei disordini. Un’altra persona ha perso la vita a Phyar Pon, nella zona del delta del fiume Irrawaddy, dove gli scontri hanno causato anche due feriti. Queste ultime violenze arrivano dopo un fine settimana di blitz notturni delle forze di sicurezza e mentre si intensifica il movimento di disobbedienza civile alla giunta militare. A Yangon, principale città del Paese, sono rimasti chiusi oggi negozi, stabilimenti e istituti bancari.
Il bilancio delle vittime dall’inizio della crisi è salito negli ultimi giorni oltre i 50 morti, con 38 vittime nella sola giornata di mercoledì 3 marzo. Vi sono inoltre più di 1.800 persone arrestate, come indicato dai dati aggiornati dell’Associazione di assistenza ai prigionieri politici: tra queste figurano esponenti politici (a partire dalla consigliera di Stato Aung San Suu Kyi e dal presidente Win Myint, sui quali pendono numerosi capi di imputazione), deputati, leader degli studenti, monaci buddhisti, semplici manifestanti, sindacalisti e impiegati pubblici che hanno preso parte al Movimento di disobbedienza civile (Mdc) organizzato contro la giunta militare.
Lo scorso primo febbraio, a poche ore dall’insediamento del nuovo parlamento emerso dalle contestate elezioni di novembre 2020, le forze armate hanno preso il potere arrestando la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, e il presidente Win Myint. Il parlamento sarebbe stato dominato dalla Lega nazionale per la democrazia (Nld) e avrebbe visto una presenza risibile del Partito dell’unione per la solidarietà e lo sviluppo (Usdp), la forza politica appoggiata dai vertici militari. Secondo i generali, guidati da Min Aung Hlaing, le elezioni sarebbero state macchiate da brogli e irregolarità e le autorità civili non avrebbero fatto nulla per porre rimedio. Il colpo di Stato in Myanmar sembra tuttavia legato anche alla rivalità geopolitica tra Cina e India, con molti osservatori che nelle ultime settimane hanno accusato deliberatamente Pechino di aver favorito l’ascesa dei militari a causa della sua insoddisfazione per il governo di Aung San Suu Kyi in un Paese in cui la Repubblica popolare ha in corso importanti progetti infrastrutturali.
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