Le forze di sicurezza del Myanmar hanno aperto ancora una volta il fuoco sui manifestanti che da settimane protestano contro il colpo di Stato militare dello scorso primo febbraio, uccidendo almeno 9 persone. Lo riferisce il portale “Irrawaddy”, edito da esiliati birmani di base in Thailandia. Gli scontri sono scoppiati in tre diverse città del Paese, dove la polizia è ricorsa a proiettili veri e di gomma per disperdere i dimostranti. A Mandalay, seconda città del Paese, una ragazza di 19 anni ha perso la vita dopo essere stata colpita al collo da un proiettile, mentre un altro uomo è stato raggiunto al torace. Entrambi sono morti sul colpo. A Myingyan, nella regione di Mandalay, un manifestante di 14 anni è deceduto dopo esser stato colpito alla testa, mentre almeno dieci altri sono stati feriti. Cinque morti si sono avuti a Monywa, nella regione di Sagaing, dove la polizia in assetto anti-sommossa e l’esercito hanno affrontato i manifestanti con particolare durezza.
Le ultime morti portano almeno a 30 il bilancio delle vittime dall’inizio delle proteste contro il golpe militare, 21 delle quali nel mese di febbraio. Nella giornata di oggi disordini si sono registrati anche a Yangon, principale città commerciale del Paese, a Magwe e nello Stato di Kachin. Nella municipalità di Tamwe, a Yangon, almeno 200 manifestanti, la maggior parte dei quali molto giovani, sono stati arrestati questa mattina e portati via a bordo di mezzi dell’esercito. A ieri erano oltre 1.200 le persone arrestate in Myanmar dopo il colpo di Stato militare del primo febbraio, come riferito dalla locale Associazione di assistenza ai prigionieri politici (Aapp), secondo cui tra i detenuti vi sono leader politici, parlamentari, attivisti, manifestanti, dirigenti della commissione elettorale e dipendenti pubblici coinvolti nel Movimento di disobbedienza civile (Cdm) organizzato dall’opposizione. Solo 300 tra le persone arrestate sono state nel frattempo rilasciate, mentre 61 sono quelle sui quali è stato spiccato un mandato di arresto e che figurano attualmente nella lista dei latitanti. I personaggi arrestati più noti sono la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi, il presidente Win Mying, il vice presidente Henry Van Thio e i presidenti delle due camere del parlamento. In custodia cautelare si trovano inoltre più di cento membri della Lega nazionale per la democrazia (Lnd), il partito di Aung San Suu Kyi che ha vinto nettamente le elezioni del novembre 2020, la cui regolarità è contestata dalle forze armate.
La giunta militare ha spiccato mandati d’arresto per 21 rappresentanti eletti, 17 dei quali fanno attualmente parte del Comitato di rappresentanza del Parlamento dell’Unione, formato a seguito del golpe. Agli arresti si trovano anche 11 ministri del governo di Aung San Suu Kyi, tre vice ministri e tutti i 14 ministri capi statali e regionali nominati dall’Lnd: tra questi figurano i leader della regione di Mandalay, Zaw Mynt Maung; della regione di Magwe, Aung Moe Nyo; della regione di Tanintharyi, Mynt Maung; della regione di Sagaing, Myint Naing; dello Stato di Rakhine, Nyi Pu. Tutti costoro sono stati incriminati per incitamento alla sovversione in base all’articolo 505 (b) del codice penale, che prevede pene fino a due anni di carcere. In stato di detenzione restano anche 148 funzionari della Commissione elettorale dell’unione (Uec), fra cui il presidente Hla Thein. I vertici militari hanno giustificato il colpo di Stato con irregolarità che si sarebbero verificate in occasione delle elezioni di novembre e hanno annunciato la convocazione di nuove consultazioni.
Sono stati inoltre arrestati tutti i presidenti dei parlamenti statali e regionali, fatta eccezione per quelli degli Stati di Rakhine e Shan. Tra questi, sette sono stati liberati e 14 sono ancora agli arresti. Sono finiti in carcere, poi, esponenti di spicco della società civile: l’attivista filodemocratico Ko Mya Aye, il regista Min Htin Ko Ko Gyi, il leader degli studenti Ko Min Thway Thit, gli scrittori Maung Thar Cho e Htin Linn Oo e quattro monaci. Con l’intensificarsi delle proteste contro il colpo di Stato, i militari hanno preso di mira i leader dei manifestanti e centinaia di persone che hanno preso parte al Movimento di disobbedienza civile, almeno 300 nella sola giornata del primo marzo secondo l’Aapp. Fra questi figurano 80 studenti e 44 dipendenti pubblici che hanno partecipato agli scioperi che continuano a paralizzare il Paese. Infine, oltre 150 dipendenti pubblici sono stati licenziati o sospesi a causa del loro coinvolgimento nelle proteste.
La crisi in Myanmar continua ad acuirsi. Lo scorso primo febbraio, a poche ore dall’insediamento del nuovo parlamento emerso dalle contestate elezioni di novembre 2020, le forze armate hanno preso il potere arrestando la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, e il presidente Win Myint. Il parlamento sarebbe stato dominato dalla Lega nazionale per la democrazia (Nld) e avrebbe visto una presenza risibile del Partito dell’unione per la solidarietà e lo sviluppo (Usdp), la forza politica appoggiata dalle forze armate. Secondo i generali, guidati da Min Aung Hlaing, le elezioni sarebbero state macchiate da brogli e irregolarità e le autorità civili non avrebbero fatto nulla per porre rimedio. Il colpo di Stato in Myanmar sembra tuttavia legato anche alla rivalità geopolitica tra Cina e India, con molti osservatori che nelle ultime settimane hanno accusato deliberatamente Pechino di aver favorito l’ascesa dei militari a causa della sua insoddisfazione per il governo di Aung San Suu Kyi in un Paese in cui la Repubblica popolare ha in corso importanti progetti infrastrutturali.
Nel frattempo il parlamento esautorato dal colpo di Stato dello scorso primo febbraio ha sfidato apertamente la giunta militare al potere nominando quattro ministri ad interim per formare una sorta di governo ombra. A renderlo noto è un comunicato della Commissione di rappresentanza dell’Assemblea dell’Unione (Crph), che osserva come dopo l’arresto “illegittimo” del presidente Win Myint e della Consigliera di Stato Aung San Suu Kyi il governo non è stato in grado di svolgere le proprie funzioni. Quattro personalità, tre delle quali provenienti dalle fila della Lega nazionale per la democrazia (Lnd) di Aung San Suu Kyi, sono state dunque scelte per assumere i principali incarichi governativi. Daw Zin Mar Aung, che è membro del Crph e che è stato eletto alla camera bassa in occasione delle contestate elezioni generali dello scorso 8 novembre, è stato nominato ministro degli Esteri ad interim. La commissione ha anche scelto Lwin Ko Latt, anch’egli membro del Crph, come ministro incaricato dell’Ufficio di presidenza e dell’Ufficio di governo. Tin Tun Naing, parlamentare dell’Lnd, sarà incaricato di guidare tre fondamentali ministeri economici: Pianificazione, Finanze e Industria; Investimenti e Relazioni economiche con l’estero; Commercio. Infine, il Crph ha selezionato Zaw Wai Soe come ministro del Lavoro, dell’Immigrazione e della Popolazione; dell’Istruzione; della Salute e dello Sport.
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