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L’amministrazione Biden colta di sorpresa dal ritorno dei socialisti in America Latina

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La più recente cronaca politico-giudiziaria dell’America latina sembra offrire alla sinistra la possibilità di tornare a coprire il ruolo da protagonista che aveva ostentato a inizio secolo. Un’ascesa che consegna all’amministrazione Usa del presidente Joe Biden, da poco meno di due mesi entrato alla Casa Bianca, un panorama regionale più articolato da gestire, non ridotto ai “tradizionali” dossier di Cuba e Venezuela (e Messico) su cui si era concentrato Donald Trump. Gli eredi di una stagione di governi che guardavano più a Pechino che a Washington, sembrano sempre più vitali. In Brasile l’ex presidente Inacio Luiz “Lula” da Silva si vede annullate per vizio di forma tutte le sentenze di condanna per corruzione, che lo lasciano libero di tornare a puntare alla presidenza. In Bolivia, la breve stagione del governo “ad interim” sorta sulle rovine “dell’eterno” Evo Morales si chiude definitivamente con l’arresto, rocambolesco, della ex presidente Jeanine Anez, di alcuni suoi ministri e dei vertici delle forze armate ad essa legate. Senza contare che l’Ecuador, per quattro anni solido alleato della Casa Bianca, sembra presto destinato a tornare in mano ai “neosocialisti” dell’ex presidente Rafael Correa, e che in Cile, come in Paraguay, i governi conservatori soffrono sempre più i colpi della protesta di piazza, dove alle rivendicazioni sociali si aggiungono ora le proteste sulla gestione della pandemia.


In Brasile la Corte suprema è intervenuta senza mezzi termini ritenendo frutto di errori di forma ben tre sentenze contro Lula. Una decisione che rimette in discussione la recente storia giudiziaria del paese e che potrebbe rimettere Lula – forte di un consenso popolare ancora sostanzialmente intatto – al centro di una scena in cui l’attuale presidente Jair Bolsonaro sconta le difficoltà di gestire la crisi della pandemia. Il leader sindacale aspetterà per capire se ricandidarsi alle presidenziali del 2022, ma le armi con cui Bolsonaro aveva conquistato il palazzo del Planalto si sono in parte spuntate: il magistrato star dei processi “lava Jato”, Sergio Moro, ha abbandonato il ministero della Giustizia in rotta con il presidente, portandosi probabilmente dietro i consensi che lo avevano trasformato in eroe nazionale. Le trattative che Bolsonaro ha dovuto fare con il grande centro parlamentare per avere la guida delle due Camere e far correre l’agenda delle riforme ha corroso l’immagine del leader in lotta contro la “casta”. Bolsonaro rimarrà comunque altri due anni in carica e le prime interazioni tra Washington e Brasilia al momento non segnano particolari mutazioni.

L’arresto di Anez in Bolivia pare d’altra parte mettere il sigillo al ritorno definitivo del partito di Morales, il Movimento per il socialismo (Mas), alla guida del paese. Il leader “cocalero”, presidente della Bolivia dal 2006 al 2019, era rientrato a fine 2020 in patria dopo un anno di esilio, prima in Messico e poi in Argentina, accolto da imponenti manifestazioni di piazza. Ad attenderlo il nuovo presidente, suo ex fidato ministro delle Finanze, Luis Arce, vincitore delle nuove elezioni che hanno chiuso la breve stagione del governo “ad interim” appoggiato dalla Casa Bianca e dal Brasile, ma non da attori come Messico e Argentina. Le ultime operazioni della magistratura boliviana svelano un possibile smantellamento di tutta la rete legata a quel potere transitorio, per rinsaldare a La Paz il governo che aveva rotto con gli Usa e stretto alleanze solide con il Venezuela come con l’Iran. Unico segno di cui il Mas dovrà tenere però conto sono le elezioni regionali di queste settimane, dalle quali emergono segnali di incoraggiamento per le opposizioni.

In Ecuador sta per finire la stagione politica di Lenin Moreno, già delfino e numero due dell’ex presidente Rafael Correa. Salito al potere, Moreno ha abbandonato l’agenda del suo predecessore, costretto in poco tempo ad abbandonare il paese, inseguito da una giustizia che in patria metteva alle corde altri nomi di spicco dell’establishment. Il 7 febbraio, al primo turno delle elezioni presidenziali, Andrés Arauz – uomo di fiducia di Correa – ha ottenuto un ottimo margine di vantaggio sul conservatore Guillermo Lasso e tutti i sondaggi indicano che potrà vincere il ballottaggio dell’11 aprile. Le urne diranno che piega prenderanno almeno due questioni strategiche che coinvolgono gli Usa: l’utilizzo da parte del comando Sud della base militare di Manta contro il narcotraffico, negato sotto Correa e parzialmente ripreso con Moreno, e il controllo delle attività peschiere nelle Galapagos, da tempo preda delle incursioni illegali provenienti dall’Oriente.

E l’Argentina, in cui al governo nel ruolo di “vice” si trova l’ex “presidenta” Cristina Fernandez, non solo lavora con il Messico per mettere l’intera regione a distanza di sicurezza dagli interessi della Casa Bianca, ma critica anche apertamente l’operato del segretario generale dell’Organizzazione degli stati Americani (Osa), Lsui Almagro, protagonista di tante battaglie al fianco di Trump, soprattutto contro i “regimi” neo socialisti. In Venezuela, il governo del presidente Nicolas Maduro ha dimostrato – forte soprattutto di un appoggio mai ritratto dei militari – di saper resistere alle tante pressioni internazionali. La Casa Bianca conferma la linea di appoggio al leader oppositore Juan Guaidò e fa ancora pochissimi sconti a Caracas, ma è anche vero che nel paese caraibico sembra decollare un nuovo tentativo di mediazione tra le parti, con l’autorevole cappello de Regno di Norvegia. Il “gruppo di Lima”, insieme di dodici paesi che sotto la regia di Washington aveva esercitato le maggiori pressioni su Maduro viene ora invitato ad affiancarsi all’azione di altri mediatori, più possibilisti sul dialogo tra le parti, come il Gruppo di Contatto promosso dall’Unione europea.

La pandemia, che secondo i vari osservatori internazionali sta rendendo evidenti i ritardi strutturali che l’America latina soffre in termini di assistenza sanitaria e di divario sociale, sta riportando la protesta in piazza. E al pari di quanto visto in autunno del 2019, la critica si rovescia sugli esecutivi in carica, oggi in gran parte conservatori. È il caso – tra gli altri – del Cile, in cui la classe media pare aver perso il terreno guadagnato in anni, o del Paraguay, che nelle ultime settimane ha conosciuto un’impennata dei contagi tale da allarmare la popolazione abituata a mesi di sostanziale tenuta: il presidente mario Abdo Benitez è corso ai ripari sostituendo cinque ministri, ma la crisi non sembra finita.

A fronte di tutto questo, scrive sul “New York Times” il presidente dell’Inter-American Dialogue, Michael Shifter, Biden dovrà decifrare il rapporto con tutti i protagonisti della regione, dopo la stagione di Trump. “Negli ultimi quattro anni, la ‘cooperazione’ ha significato l’adattamento alle richieste degli Stati Uniti, in particolare sulla migrazione. In nome della non interferenza e della sovranità nazionale, è probabile che questi governi smettano di collaborare se l’amministrazione Biden prende una ferma posizione pubblica, ad esempio, sulla corruzione militare in Messico, sulla deforestazione in Brasile o sull’uccisione di leader sociali in Colombia”. Un monito a Biden perché gli Usa non perdano il contatto con la regione è arrivato da ultimo dal ministro degli Esteri dell’Uruguay, Francisco Bustillo. “Gli Stati uniti devono ascoltarci perché l’unico che ci presta attenzione è la Cina, che bussa continuamente alle nostre porte, perché la nostra è una regione molto ricca”, ha detto il ministro nel corso di una conferenza online organizzata dall’Atlantic Council per i paesi del Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay).

 

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