Fin dal giorno in cui, era il 25 settembre dell’anno scorso, le urne le hanno consegnato la guida del governo del Paese, è apparso chiaro che Giorgia Meloni avrebbe voluto legare il suo nome a una riforma costituzionale organica. Un segno distintivo per il primo governo guidato da una donna. Un obiettivo, quello della riforma della Costituzione, che la Meloni intende perseguire con tenacia, rafforzando i poteri dell’esecutivo in modo da dare stabilità al governo – ad ogni governo – interrompendo la tradizione italiana di crisi politiche e di esecutivi a tempo.
La Meloni però sa, e qualche segnale in queste ultime settimane è arrivato, che il percorso verso la grande riforma rischia di essere complicato, difficile e accidentato e che potrebbe mettere a rischio la stessa stabilità e compattezza del governo di centrodestra.
Abbandonata l’idea dell’elezione diretta del capo dello Stato, la premier ha ripiegato su quella dell’elezione diretta del capo del governo, una sorta di “sindaco d’Italia” nella logica di un modello molto simile al cancellierato tedesco. Ipotesi che di fatto ha diviso ancor più di quanto già non lo fossero le opposizioni: al no del Partito democratico di Elly Schlein si è contrapposta, per esempio, la disponibilità manifestata da Carlo Calenda e Matteo Renzi. Senza dimenticare il Movimento 5 stelle, il cui leader si è pronunciato, almeno in prima battuta, contro premierato e presidenzialismo, ma proponendo, allo stesso tempo, l’istituzione di una commissione bicamerale.
E tuttavia sono tanto i rapporti con le opposizioni a togliere il sonno alla Meloni. Un problema serio potrebbe sorgere, invece, se Matteo Salvini chiedesse di unificare il percorso parlamentare della riforma costituzionale con quello dell’autonomia regionale. Il leader della Lega potrebbe avanzare questa richiesta per mantenere il controllo del partito e per cercare di “blindare” l’autonomia differenziata, legandola ad una riforma generale che, certamente, appare più popolare.
L’unificazione dei due provvedimenti, tuttavia, potrebbe paradossalmente mettere piombo nelle ali della riforma costituzionale, ponendo a rischio la sua approvazione referendaria, per via della generale diffidenza con cui nelle regioni centro-meridionali si guarda all’autonomia differenziata.
È in questo nodo che si inseriscono le manovre di Matteo Renzi, il quale potrebbe riuscire ad irrobustire i gruppi parlamentari di Italia viva con l’arrivo dei transfughi provenienti da Azione, ma anche dei moderati in fuga dal Pd. Un’operazione che potrebbe avere come obiettivo il raggiungimento di una maggioranza dei due terzi in favore della riforma costituzionale, tale da evitare il referendum confermativo.
È evidente, però, che la disponibilità di Renzi si limita all’introduzione di un premierato forte, mentre invece, se la riforma costituzionale e quella delle autonomie dovessero essere unificate, la sua disponibilità verrebbe meno.
La presidente del Consiglio dovrà essere, quindi, così abile da portare avanti la grande riforma mantenendo aperto il dialogo con tutte le componenti politiche non pregiudizialmente contrarie, sostenendo con lealtà l’autonomia differenziata lungo tutto il suo percorso parlamentare, ma convincendo allo stesso tempo Salvini ad evitare una saldatura tra i due disegni di legge costituzionali, che potrebbero altrimenti essere entrambi sottoposti a referendum confermativo ed essere fatalmente impallinati dal voto popolare.
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