L’Esercito degli Stati Uniti sta studiando lo schieramento di una “task force multi-dominio” nella regione asiatica, che integrerà capacità missilistiche, elettroniche e informatiche come deterrente contro possibili aggressioni della Cina contro Taiwan e nel Mar Cinese Meridionale. Lo ha dichiarato al quotidiano “Nikkei” il comandante dell’Esercito Usa per il Pacifico, Charles Flynn. Le forze armate Usa hanno già istituito due task force multi-dominio di stanza presso basi nello Stato Usa di Washington e in Germania, forti ciascuna di diverse migliaia di uomini. Le task force sono suddivise in quattro gruppi, con capacità di combattimento, difesa aerea, logistica e guerra informatica. Secondo Flynn, tale struttura evidenzia la progressiva transizione delle forze armate Usa dal contrasto al terrorismo nel Medio Oriente al confronto con potenze di livello quasi-pari, prima tra tutte la Cina. Tra le altre cose, la task force è concepita per raccogliere informazioni nei periodi di pace, approntando strategie e dottrine operative sulla base degli schemi e delle debolezze riscontrate nei complessi militari avversari. In caso di conflitto – ha spiegato Flynn – le capacità di guerra elettronica e informatica punterebbero anzitutto a interrompere le reti di comunicazione nemiche e i loro sistemi di comando e controllo, oltre a colpire obiettivi di alto valore con l’impiego delle informazioni di intelligence ottenute in precedenza.
Secondo Flynn, la terza task force multi-dominio dell’Esercito Usa verrà istituita dopo il 2023, e sarà inizialmente dispiegata alle Hawaii, ma verrà successivamente trasferita presso altre località asiatiche per essere più prossima alla Cina. Secondo il quotidiano “Nikkei”, la prossimità alla Cina sarà necessaria a garantire l’efficacia di nuove tipologie di missili tattici attualmente in fase di sviluppo da parte dell’industria bellica Usa, che però non avranno portate superiori ad alcune migliaia di chilometri: le forze armate Usa puntano a dispiegare i nuovi missili presso batterie terrestri lungo la cosiddetta “catena delle prime isole”, che collega la prefettura giapponese meridionale di Okinawa, Taiwan e le Filippine. Il quotidiano “Nikkei” sottolinea che la Russia è ritenuta il primo Paese in assoluto ad aver applicato la dottrina delle operazioni multi-dominio in teatri bellici reali: lo avrebbe fatto in Ucraina sin dal 2014, integrando capacità di guerra elettronica per disabilitare sistemi GPS e paralizzare infrastrutture in preparazione di attacchi aerei e terrestri.
In vista dell’atteso colloquio tra i presidenti Joe Biden e Xi Jinping, il primo dallo scorso marzo, la tensione tra Stati Uniti e Cina intorno a Taiwan ha raggiunto livelli preoccupanti. Tanto da indurre un dirigente di alto livello dell’amministrazione Biden, l’assistente segretario alla Difesa per gli Affari di sicurezza dell’Indo-Pacifico Ely Ratner, a dichiarare martedì, in occasione di un evento organizzato a Washington dal think tank Center for strategic and international studies (Csis), che un “grave incidente” nell’area rischia di essere solo “questione di tempo”. In effetti, gli Stati Uniti appaiono sempre più preoccupati dalla prospettiva che la situazione possa precipitare, in particolare in una fase d’intense attività militari attorno all’isola. E al centro della preoccupazione di Biden e dei suoi collaboratori vi è senza dubbio la visita che la presidente della Camera dei rappresentanti, Nancy Pelosi, dovrebbe intraprendere a Taiwan nel prossimo agosto. Per ora si tratta solo di un’indiscrezione di stampa, di cui è stato autore la scorsa settimana il quotidiano britannico “Financial Times”. Pelosi – che aveva già rinunciato a un viaggio a Taipei lo scorso aprile, ufficialmente per aver contratto il Covid-19 – non ha tuttavia mai negato la circostanza. E del resto la notizia della visita è stata confermata, forse inavvertitamente, dallo stesso Biden, che la settimana scorsa in conferenza stampa non ha usato giri di parole: “I militari pensano che non sia una buona idea al momento”.
I principali organi d’informazione statunitensi sono concordi nel riferire del pressing della Casa Bianca su Pelosi perché rinunci al viaggio. Tecnicamente, il presidente degli Stati Uniti non ha alcun potere sull’agenda della speaker della Camera dei rappresentanti. Biden e Pelosi sono però leader dello stesso partito, ed è forse su questo punto che Xi farà leva domani per indurre i dirigenti statunitensi a più miti consigli. Dalla Cina, del resto, sono già arrivate minacce piuttosto esplicite: il ministero degli Esteri di Pechino ha chiarito che una visita di Pelosi a Taipei sarebbe considerata “un cambiamento della politica ‘Una sola Cina’ da parte degli Stati Uniti”, sulla quale i rapporti tra le due potenze si basano sin dall’avvio delle relazioni diplomatiche, e che la Repubblica popolare assumerebbe “misure dure e ferme per salvaguardare la propria sovranità e integrità territoriale”. La stessa Casa Bianca si aspetta dalla Cina una pesante rappresaglia all’eventuale visita di Pelosi, poiché a ottobre Xi Jinping chiederà un nuovo mandato al Congresso del Partito comunista e non potrebbe mostrarsi debole di fronte a quello che a Pechino sarebbe considerato un palese “atto di sfida” degli Usa. Per rinsaldare il proprio potere, del resto, il leader cinese sarà in ogni caso costretto a giocare la carta del nazionalismo e dell’anti-americanismo, poiché sul fronte economico avrà ben pochi successi da vantare: secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), la crescita del prodotto interno lordo cinese nel 2022 si fermerà al 3,3 per cento, ben al di sotto dell’obiettivo del 5,5 per cento fissato per quest’anno dai vertici del partito.
Alcuni analisti citati dal “New York Times” temono, addirittura, che la Cina potrebbe decidere di alzare in volo aerei militari per impedire l’eventuale atterraggio di Pelosi a Taipei. Un tale episodio, se si verificasse, aprirebbe scenari imprevedibili e porterebbe Cina e Stati Uniti sull’orlo di un confronto militare. Non è un caso, dunque, che in questi giorni si assista a fervide attività militari attorno all’isola. Il generale Mark Milley, capo di Stato maggiore congiunto delle forze Usa, ha dichiarato che i vertici militari faranno “quanto necessario per garantire” che l’eventuale visita di Pelosi si svolga in sicurezza. E, a questo proposito, il direttore dello Scowcroft Center per la strategia e la sicurezza dell’Atlantic Council, Barry Pavel, ha riferito di aver saputo da generali Usa che il Pentagono sta pensando di muovere portaerei e aerei militari prima dell’arrivo della speaker a Taipei. Attualmente nella regione si trova la Uss Ronald Reagan, approdata nel fine settimana a Singapore.
Lo stato di massima allerta è legato anche alla convinzione, che si fa sempre più largo nell’amministrazione Biden, secondo cui la Cina sarebbe pronta a un intervento militare a Taiwan entro un anno e mezzo. Di questo è convinto, per esempio, il senatore democratico del Delaware Chris Coons, che non fa parte dell’amministrazione ma che è considerato molto vicino al presidente Biden, al quale è legato da un’amicizia di lunga data. Domenica, in un’intervista, Coons ha ricordato che la Cina guarda con molta attenzione agli sviluppi in Ucraina per cercare di apprendere lezioni utili alla sua causa. “Una scuola di pensiero è che la Cina debba intervenire al più presto e in modo deciso, prima che ci sia il tempo di rafforzare le difese di Taiwan. Questo significa che si potrebbe arrivare a un confronto militare prima di quel che pensavamo”, ha spiegato Coons. Pechino, scrive il “New Tork Times”, sa che anche l’amministrazione Biden sta apprendendo una lezione dall’invasione russa dell’Ucraina: in questo caso, quella della necessità d’intensificare l’invio di armi verso Taiwan prima di un eventuale conflitto per scoraggiare l’intervento militare cinese.
Che l’atteggiamento di Pechino verso Taiwan sia cambiato nelle ultime settimane è reso evidente, in ogni caso, dal tenore delle azioni e delle dichiarazioni dei dirigenti del Partito comunista. Lo stesso generale Milley la scorsa settimana ha definito “notevolmente più aggressivo” il comportamento delle forze cinesi nella regione dell’Asia-Pacifico. Quest’estate i funzionari del governo cinese hanno ribadito con insistenza che le acque dello Stretto di Taiwan, più volte attraversate da navi militari Usa, non possono essere considerate acque internazionali. E le incursioni aeree e navali nei pressi dell’isola si sono rese sempre più frequenti. Oggi il ministero della Difesa di Taipei ha reso noto che diverse navi da guerra della Marina militare cinese sono state rilevate nelle acque al largo della costa orientale di Taiwan per due giorni consecutivi. Due cacciatorpediniere lanciamissili della Repubblica popolare sono stati rilevati nei pressi dell’Isola dell’Orchidea rispettivamente nella mattinata e nel pomeriggio del 25 luglio, seguiti dal transito di una nave per il monitoraggio del rumore subacqueo a 102 chilometri a nord-est di Green Island. Le navi della Repubblica popolare hanno solcato le acque al largo dell’isola anche il giorno successivo, quando una fregata missilistica Huanggang è stata rilevata a 76 chilometri a sud-est di Green Island, seguita a un’ora di distanza dalla nave di sorveglianza oceanografica Tianjixing, avvistata a 83 chilometri a nord-est della stessa isola. Nella stessa giornata, il comando dell’Aeronautica ha rilevato due cacciabombardieri JH-7 e un aereo da guerra sottomarina Y-8 nel margine sud-occidentale della Zona d’identificazione della difesa aerea (Adiz) di Taiwan.
L’ipotesi di un’invasione di Taiwan da parte della Cina porterebbe al serio rischio di un conflitto militare ampio, di dimensioni regionali se non mondiali. Gli Stati Uniti, con il presidente Biden, sembrano determinati a mettere da parte la storica “ambiguità strategica” e lo scorso maggio il capo della Casa Bianca ha chiarito, ancora una volta, che Washington interverrebbe in caso di attacco militare cinese, a differenza di quanto avvenuto in Ucraina. Negli ultimi mesi, inoltre, gli Usa hanno potenziato la loro rete di alleanze nell’area: attraverso il patto Aukus con Regno Unito e Australia, e attraverso il gruppo Quad con Giappone, India e Australia. Gli accordi non implicano l’obbligo di un intervento militare al fianco degli alleati, ma un conflitto nel Pacifico coinvolgerebbe inevitabilmente i principali attori dell’area.
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