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Il Giappone sollecita la fine delle violenze dopo l’uccisione di 38 manifestanti in Myanmar

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Il Giappone ha sollecitato la giunta militare del Myanmar a cessare la repressione violenta delle manifestazioni di protesta contro il golpe militare del mese scorso, dopo l’uccisione di 38 manifestanti in una sola giornata di violenze, all’inizio di questa settimana. “Condanniamo con forza il continuo ricorso alla violenza contro i civili, a dispetto dei ripetuti appelli della comunità internazionale”, ha dichiarato il portavoce del governo giapponese, Katsunobu Kato. Ieri, 4 marzo, il ministro degli Esteri del Giappone, Toshimitsu Motegi, ha espresso la preoccupazione di Tokyo anche alla sua omologa indonesiana, Retno Marsudi, durante il secondo colloquio telefonico tra i due ministri dal golpe birmano del primo febbraio. Motegi ha dichiarato che il Giappone continuerà a sollecitare la giunta a ripristinare il governo civile democraticamente eletto del consigliere di Stato birmano, Aung San Suu Kyi.


Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si riunirà oggi, 5 marzo, per discutere la grave situazione di crisi nel Myanmar, dopo l’uccisione di decine di manifestanti nel corso delle proteste contro il golpe militare che si sono svolte ieri in quel Paese. L’inviato speciale delle Nazioni Unite per il Myanmar, Christine Schraner Burgener, ha sollecitato la comunità internazionale ad assumere “misure molto forti” per il ripristino della democrazia in quel Paese asiatico, dopo la giornata di sconti tra manifestanti e forze di sicurezza birmane culminata nella morte di 38 manifestanti. In uno scambio epistolare con il vice capo della giunta militare, Soe Win, l’inviata Onu ha avvertito che le forze armate birmane rischiano rigide misure sanzionatorie da parte di diversi Paesi, e l’isolamento sul piano internazionale. L’ufficiale ha però replicato che Myanmar “è abituato alle sanzioni, ed è sempre sopravvissuto”, ed ha aggiunto che il Paese “dovrà abituarsi a proseguire solamente coi suoi pochi amici”: un apparente riferimento a Cina e Russia. Proprio in merito a questi due Paesi, che il mese scorso hanno impedito al Consiglio di sicurezza Onu di esprimere una aperta condanna del golpe, Schraner Burgener ha espresso l’auspicio che “ci sia il riconoscimento che non ci troviamo di fronte a meri affari interni, ma ad una crisi che colpisce la stabilità regionale”. L’inviata Onu si è detta convinta che la giunta militare birmana sia “molto sorpresa” dall’entità e dalla tenacia della resistenza civile al golpe.

È salito ad almeno 38 morti il bilancio delle violenze di ieri a Myanmar. È quanto dichiarato dall’inviato delle Nazioni Unite a Naypyidaw, Christine Schraner Burgener, che ha definito quello di oggi il “giorno più sanguinoso” dal colpo di Stato del mese scorso. “Ora contiamo più di 50 morti dal colpo di Stato e molti sono feriti”, ha detto Burgener in un briefing con la stampa. Il precedente bilancio fornito dalle autorità sulle violenze odierne nel Paese era di 28 morti, tuttavia si tratta di un numero che molto probabilmente è destinato a salire nelle prossime ore, poiché molti feriti sono in condizioni critiche. La maggior parte delle vittime, 15, si è avuta nella zona di Nord Okkalapa, nella parte orientale di Yangon, dove agenti di polizia e soldati dell’esercito hanno sparato proiettili veri contro la folla dei manifestanti. Sei persone sono rimaste uccise a Monywa, nella regione di Sagaing, dove già sabato erano stati registrati forti disordini. Una nuova giornata di sangue è stata vissuta anche a Mandalay, seconda città del Paese, dove un sit-in di protesta in centro è stato sgomberato con l’uso eccessivo della forza da parte della polizia: qui almeno tre manifestanti sono stati raggiunti da colpi di arma da fuoco e hanno perso la vita. Vittime civili anche a Myin Chan, a Magwe e a Mawlamyine.

Nella municipalità di Tamwe, a Yangon, almeno 200 manifestanti, la maggior parte dei quali molto giovani, sono stati arrestati questa mattina e portati via a bordo di mezzi dell’esercito. A ieri erano oltre 1.200 le persone arrestate in Myanmar dopo il colpo di Stato militare del primo febbraio, come riferito dalla locale Associazione di assistenza ai prigionieri politici (Aapp), secondo cui tra i detenuti vi sono leader politici, parlamentari, attivisti, manifestanti, dirigenti della commissione elettorale e dipendenti pubblici coinvolti nel Movimento di disobbedienza civile (Cdm) organizzato dall’opposizione. Solo 300 tra le persone arrestate sono state nel frattempo rilasciate, mentre 61 sono quelle sui quali è stato spiccato un mandato di arresto e che figurano attualmente nella lista dei latitanti. I personaggi arrestati più noti sono la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi, il presidente Win Mying, il vice presidente Henry Van Thio e i presidenti delle due camere del parlamento. In custodia cautelare si trovano inoltre più di cento membri della Lega nazionale per la democrazia (Lnd), il partito di Aung San Suu Kyi che ha vinto nettamente le elezioni del novembre 2020, la cui regolarità è contestata dalle forze armate.

La giunta militare ha spiccato mandati d’arresto per 21 rappresentanti eletti, 17 dei quali fanno attualmente parte del Comitato di rappresentanza del Parlamento dell’Unione, formato a seguito del golpe. Agli arresti si trovano anche 11 ministri del governo di Aung San Suu Kyi, tre vice ministri e tutti i 14 ministri capi statali e regionali nominati dall’Lnd: tra questi figurano i leader della regione di Mandalay, Zaw Mynt Maung; della regione di Magwe, Aung Moe Nyo; della regione di Tanintharyi, Mynt Maung; della regione di Sagaing, Myint Naing; dello Stato di Rakhine, Nyi Pu. Tutti costoro sono stati incriminati per incitamento alla sovversione in base all’articolo 505 (b) del codice penale, che prevede pene fino a due anni di carcere. In stato di detenzione restano anche 148 funzionari della Commissione elettorale dell’unione (Uec), fra cui il presidente Hla Thein. I vertici militari hanno giustificato il colpo di Stato con irregolarità che si sarebbero verificate in occasione delle elezioni di novembre e hanno annunciato la convocazione di nuove consultazioni.

Sono stati inoltre arrestati tutti i presidenti dei parlamenti statali e regionali, fatta eccezione per quelli degli Stati di Rakhine e Shan. Tra questi, sette sono stati liberati e 14 sono ancora agli arresti. Sono finiti in carcere, poi, esponenti di spicco della società civile: l’attivista filodemocratico Ko Mya Aye, il regista Min Htin Ko Ko Gyi, il leader degli studenti Ko Min Thway Thit, gli scrittori Maung Thar Cho e Htin Linn Oo e quattro monaci. Con l’intensificarsi delle proteste contro il colpo di Stato, i militari hanno preso di mira i leader dei manifestanti e centinaia di persone che hanno preso parte al Movimento di disobbedienza civile, almeno 300 nella sola giornata del primo marzo secondo l’Aapp. Fra questi figurano 80 studenti e 44 dipendenti pubblici che hanno partecipato agli scioperi che continuano a paralizzare il Paese. Infine, oltre 150 dipendenti pubblici sono stati licenziati o sospesi a causa del loro coinvolgimento nelle proteste.

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