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I Paesi Asean chiedono alla giunta militare in Myanmar di liberare Aung San Suu Kyi

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La giunta militare che ha preso il potere in Myanmar lo scorso primo febbraio rilasci la leader Aung San Su Kyi e smetta di usare la forza letale contro i manifestanti anti-golpisti. L’appello giunge dall’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean), riunita oggi in formato virtuale per discutere la crisi aperta dal colpo di Stato e acuita nelle ultime ore da violenze che hanno provocato la morte di oltre 20 persone. I ministri degli Esteri dell’Asean – composto, oltre che dal Myanmar, da Singapore, Filippine, Indonesia, Thailandia, Laos, Cambogia, Malesia, Brunei e Vietnam – hanno parlato con un rappresentante della giunta militare in videoconferenza. Al termine del colloquio, la ministra degli Esteri dell’Indonesia Retno Marsudi ha invitato il Myanmar ad “aprire le porte” al blocco Asean per risolvere la crisi, chiedendo inoltre il rilascio dei detenuti politici e la restaurazione della democrazia e promettendo che l’organizzazione regionale non interferirà negli affari interni di Naypyidaw. Anche i ministri degli Esteri di Malesia e Filippine, rispettivamente Hishammudin Hussein e Teodoro Locsin, hanno chiesto il rilascio di Aung San Suu Kyi, nei confronti della quale sono stati presentati ieri nuovi capi d’imputazione. Il gruppo, in un comunicato, ha infine invitato “tutte le parti” ad astenersi dall’istigare la violenza, rinnovando l’impegno dell’associazione a contribuire ad alleviare le violenze.


Tutto questo dopo che oggi le forze di sicurezza hanno aperto nuovamente il fuoco contro i manifestanti anti-golpisti in Myanmar, provocando il ferimento grave di almeno tre persone. Lo riporta il sito internet “Channel News Asia” menzionando fonti mediche locali. I dimostranti, molti dei quali con caschi e scudi artigianali, hanno eretto barricate in diverse zone di Yangon, capitale commerciale del Paese, intonando slogan contro la giunta militare che ha preso il potere lo scorso primo febbraio. “Se siamo oppressi, esploderemo. Se veniamo colpiti, risponderemo”, recita uno dei cori degli anti-golpisti. Gli scontri sono scoppiati in almeno quattro diversi punti della principale città del Paese, con la polizia che è ricorsa a granate stordenti per disperdere la folla. Ma gli episodi più violenti sono avvenuti a Kale, nel nord-ovest, dove le forze di sicurezza hanno utilizzato proiettili veri contro i manifestanti. Secondo una fonte medica locale, uno dei feriti sarebbe stato colpito alla gamba e sarebbe ora in sala operatoria; un altro sarebbe stato centrato all’addome e avrebbe bisogno di una trasfusione di sangue; un terzo avrebbe ricevuto un colpo al torace. Finora sono 21 i manifestanti che hanno perso la vita dall’inizio dei disordini, 18 dei quali lo scorso fine settimana. L’esercito, da parte sua, ha fatto sapere di aver perso un uomo tra le proprie fila.

La crisi in Myanmar continua ad acuirsi. Lo scorso primo febbraio, a poche ore dall’insediamento del nuovo parlamento emerso dalle contestate elezioni di novembre 2020, le forze armate hanno preso il potere arrestando la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, e il presidente Win Myint. Il parlamento sarebbe stato dominato dalla Lega nazionale per la democrazia (Nld) e avrebbe visto una presenza risibile del Partito dell’unione per la solidarietà e lo sviluppo (Usdp), la forza politica appoggiata dalle forze armate. Secondo i generali, guidati da Min Aung Hlaing, le elezioni sarebbero state macchiate da brogli e irregolarità e le autorità civili non avrebbero fatto nulla per porre rimedio. Il colpo di Stato in Myanmar sembra tuttavia legato anche alla rivalità geopolitica tra Cina e India, con molti osservatori che nelle ultime settimane hanno accusato deliberatamente Pechino di aver favorito l’ascesa dei militari a causa della sua insoddisfazione per il governo di Aung San Suu Kyi in un Paese in cui la Repubblica popolare ha in corso importanti progetti infrastrutturali.

Nel frattempo il parlamento esautorato dal colpo di Stato dello scorso primo febbraio ha sfidato apertamente la giunta militare al potere nominando quattro ministri ad interim per formare una sorta di governo ombra. A renderlo noto è un comunicato della Commissione di rappresentanza dell’Assemblea dell’Unione (Crph), che osserva come dopo l’arresto “illegittimo” del presidente Win Myint e della Consigliera di Stato Aung San Suu Kyi il governo non è stato in grado di svolgere le proprie funzioni. Quattro personalità, tre delle quali provenienti dalle fila della Lega nazionale per la democrazia (Lnd) di Aung San Suu Kyi, sono state dunque scelte per assumere i principali incarichi governativi. Daw Zin Mar Aung, che è membro del Crph e che è stato eletto alla camera bassa in occasione delle contestate elezioni generali dello scorso 8 novembre, è stato nominato ministro degli Esteri ad interim. La commissione ha anche scelto Lwin Ko Latt, anch’egli membro del Crph, come ministro incaricato dell’Ufficio di presidenza e dell’Ufficio di governo. Tin Tun Naing, parlamentare dell’Lnd, sarà incaricato di guidare tre fondamentali ministeri economici: Pianificazione, Finanze e Industria; Investimenti e Relazioni economiche con l’estero; Commercio. Infine, il Crph ha selezionato Zaw Wai Soe come ministro del Lavoro, dell’Immigrazione e della Popolazione; dell’Istruzione; della Salute e dello Sport. Nel comunicato, la Commissione di rappresentanza dell’Assemblea dell’Unione torna a condannare “con durezza” il golpe militare del primo febbraio e ad affermare il proprio sostegno al movimento di disobbedienza civile contro la giunta militare. Il Crph, formato dopo il colpo di Stato, è composto da 17 parlamentari eletti dell’Lnd.

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