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Ecco perché l’accordo tra l’Eni e la Noc segna una svolta nel controllo delle risorse energetiche libiche

Un'intesa che ha scatenato accuse ma provenienti da personalità ormai prive di potere, che l’ex inviata delle Nazioni Unite in Libia definirebbe “dinosauri politici” in via di estinzione

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di Alessandro Scipione, da Mezzaluna

Il maxi-accordo sul gas da otto miliardi di dollari firmato sabato 28 gennaio a Tripoli tra l’Eni e la libica National Oil Corporation (Noc) alla presenza del presidente del Consiglio dell’Italia, Giorgia Meloni, segna una svolta nella partita per le risorse energetiche libiche. Alcuni hanno criticato un’intesa definita “sconveniente” e “contraria agli interessi libici”, prospettando presunti problemi legali per via della natura transitoria del Governo di unità nazionale (Gun) al potere a Tripoli. Si tratta di accuse provenienti da personalità ormai prive di potere, che l’ex inviata delle Nazioni Unite in Libia, Stephanie Williams, definirebbe “dinosauri politici” in via di estinzione. E’ questo il caso del ministro del Petrolio Mohammed Aoun, assente alla cerimonia di firma degli accordi con l’Italia e anche del memorandum d’intesa sulle esplorazioni e lo sfruttamento di idrocarburi con la Turchia nell’ottobre 2022. Egli si è scagliato contro l’Eni e soprattutto contro Farhat Bengdara, un tecnico subentrato lo scorso agosto alla guida della Noc, definendo “illegale” il contratto firmato a Tripoli dall’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi. La verità che Aoun è da tempo ai margini del governo dopo che il primo ministro libico, Abdulhamid Dabaiba, ha riorganizzato la gestione del settore petrolifero riesumando il Consiglio supremo per l’energia, svuotando così di significato l’esistenza stessa del ministero del Petrolio.

Ma le critiche più feroci contro l’accordo Eni-Noc sono arrivate (anche in Italia) da esponenti vicini a Fathi Bashagha, il primo ministro del cosiddetto Governo di stabilità nazionale (Gsn) designato dalla Camera dei rappresentanti, il foro legislativo libico eletto nel 2014. “Il governo uscente di Tripoli non è qualificato a firmare accordi in conformità con gli accordi politici internazionali siglati a Ginevra sotto gli auspici delle Nazioni Unite, per di più in un contesto in cui si aumenta la quota del partner estero e si riduce quella del partner nazionale”, si legge in una nota del Gns. E’ vero che il governo al potere a Tripoli non è stato eletto, ma soltanto incaricato dal dialogo intra-libico di Ginevra di traghettare il Paese alle elezioni. Elezioni che dovevano tenersi il 24 dicembre 2021 e che non si sono mai tenute. Ma è altrettanto vero che Bashagha guida un esecutivo parallelo senza riconoscimento internazionale, inizialmente sostenuto da Egitto e Russia e ormai sempre più abbandonato a sé stesso dopo i tre tentativi (tutti falliti) di insediarsi nella capitale manu militari.

E’ significativo, invece, che l’intesa non sia stata criticata dal clan del generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica al comando dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna). Del resto, la stessa nomina di Bengdara alla guida della Noc è il frutto di un accordo tra l’ex ufficiale del regime di Gheddafi e Dabaiba e ha consentito di superare una fase di tensioni est-ovest sul petrolio. Il silenzio-assenso dell’Lna può essere inteso come una luce verde da parte di chi detiene realmente il potere nella Libia orientale. “Questo accordo è un investimento su Dabaiba, ma certamente anche sulla figura di Bengdara. Evidentemente il governo italiano ritiene che il presidente della Noc sia in grado di superare le turbolenze in Libia, un po’ come accaduto con il suo precessore Mustafa Sanallah, rimasto in carica per dieci anni”, commenta a “NovaArturo Varvelli, direttore dell’ufficio di Roma dell’European Council on Foreign Relations (Ecfr) ed esperto di Libia.

Un investimento, quello dell’Italia e di Eni, che comporta però anche dei rischi. L’intesa firmata da Eni e dalla National Oil Company libica rappresenta effettivamente un punto di svolta nella lunga lotta per il controllo e lo sfruttamento delle risorse energetiche libiche: uno scontro che ha visto e ancora vede impegnati soprattutto francesi, russi e turchi, nel tentativo di ridurre la nostra presenza nel Paese. Le interruzioni forzate della produzione petrolifera sono frequenti in Libia e la presenza dei mercenari del gruppo russo Wagner rappresenta un rischio concreto. Non a caso la visita di Meloni in Libia è giunta dopo la missione a Tripoli e Bengasi del direttore della Central Intelligence Agency (Cia), William Burns, il quale ha incontrato sia Dabaiba che Haftar, lanciando un segnale del rinnovato interesse degli Stati Uniti nell’intricata questione libica e del ruolo italiano quale interprete degli interessi di Washington.

Il ragionamento alla base della strategia italiana in Libia, secondo Varvelli, è che i governi passano, ma le istituzioni storiche come la National Oil Corporation e la Banca centrale restano. Non a caso Saddiq al Kabir, potente governatore dell’istituto emittente, è in carica fin dal 2011: egli è un alleato chiave del premier Dabaiba in quanto garante dei finanziamenti che consentono al Gun di sopravvivere. “E’ vero, ci sono dei rischi, ma onestamente mi sento di dire che in Libia tutto è un rischio. Per avere un governo nazionale unico, riconosciuto da tutti e senza opposizioni bisogna tornare all’epoca di Gheddafi. E’ un rischio che onestamente non mi sento di penalizzare in questo momento”, aggiunge Varvelli. “Il punto – prosegue il direttore di Ecfr a Roma – è se questo accordo è unilaterale o se ha una sorta di paracadute, una garanzia internazionale per esempio con la Turchia e gli Stati Uniti”.

E’ opportuno ricordare che, prima della tappa in Libia, il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Antonio Tajani, si era recato in Turchia e in Egitto. “Avere l’impegno del Cairo e di Ankara per stabilizzare la Libia e favorire le elezioni diventa fondamentale”, aveva detto Tajani ai giornalisti sul volo di ritorno dalla missione in Turchia lo scorso 13 gennaio. Non solo. La visita compiuta a Tripoli da Giorgia Meloni, preceduta come detto dal viaggio del direttore della Cia, difficilmente sarebbe stata possibile senza l’avallo degli Stati Uniti. “Mi pare che sarebbe da sprovveduti fare un accordo come quello che ha fatto Eni senza tenere conto del nuovo corso di Washington”, commenta ancora Varvelli.

Il vero problema, secondo l’esperto, è che tutti in Libia sembrano rimanere sulle loro posizioni. “E’ una situazione di stallo nella quale ogni potentato della Libia, divenuta ormai uno Stato consociativo, non vuole veramente andare alle elezioni. E’ un’oligarchia politica ed economica che lotta per la conservazione dello status quo”, aggiunge Varvelli. L’esperto di Ecfr, infine, sembra escludere una recrudescenza delle violenze nell’ex Jamahiriya di Muhammar Gheddafi. “Non ci sono più le condizioni di quattro anni fa. I Paesi del Golfo hanno smesso di fomentare una guerra che non vogliono neanche gli egiziani e i turchi. Il gruppo Wagner è presente ed è una minaccia, ma la Russia al momento ha ovviamente altri problemi a cui pensare. L’unico vero pericolo in Libia è uno stallo infinito”, conclude Varvelli.

Da un punto di vista economico, l’accordo firmato da Eni è fondamentale per la Libia e rappresenta forse “l’ultimo treno” per evitare il declino del Paese membro dell’Opec, dal momento che i giacimenti attivi di idrocarburi (principale fonte di sostentamento dello Stato) si stanno esaurendo rapidamente. Secondo Masoud Suleiman, membro del consiglio di amministrazione della National Oil Corporation, “lo Stato libico non può fornire da solo fondi per sviluppare i giacimenti, e non abbiamo altra alternativa che continuare con questo accordo”, ritenendo l’intesa “buona” e “nell’interesse dello Stato libico e della National Oil Corporation”; anche perché le spese di investimento dovrebbero essere suddivise equamente tra la Libia e la società italiana, e “le quantità di gas che si prevede di estrarre compenseranno il valore di equity dell’investimento nel progetto”. Non da ultimo, ha spiegato il membro di Noc, l’intesa è giunta a fronte di una prevista crisi di gas domestico per il Paese nordafricano, le cui centrali elettriche, dal 2025, rischiano di trovarsi senza i 600 milioni di piedi cubi di gas necessari per il loro funzionamento.

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