L’Italia è il principale beneficiario del fondo europeo Next Generation Eu: è fondamentale dimostrare che il Paese è in grado di spendere rispettando le dovute tempistiche, con efficienza e con integrità. Lo ha detto Mario Draghi, ex premier italiano e presidente della Banca centrale europea (Bce), rispondendo ad una domanda del pubblico al termine della sua lezione al National Bureau of Economic Research a Cambridge, in Massachusetts.
“Con l’ulteriore allargamento dell’Unione europea ai Balcani e all’Ucraina, sarà essenziale riaprire i trattati per garantire che non si ripetano gli errori del passato, espandendo la periferia senza rafforzare il centro: questo dovrebbe produrre un allineamento naturale tra i nostri obiettivi condivisi, il processo decisionale collettivo e le regole fiscali” ha detto ancora Draghi. “Il punto di partenza di ogni futura modifica dei trattati deve essere il riconoscimento del numero crescente di obiettivi condivisi e della necessità di finanziarli insieme, il che a sua volta richiede una diversa forma di rappresentanza e di processo decisionale centralizzato: a quel punto, il passaggio a regole più automatiche diventerebbe più realistico”, ha spiegato, aggiungendo che gli europei sono “più pronti ad intraprendere questa strada” rispetto a 20 anni fa, trovandosi davanti solo tre opzioni. “Paralisi, uscita o integrazione”, ha precisato Draghi.
“La sfida principale per l’area dell’euro è che gli Stati si affidano a regole fiscali nazionali per raggiungere obiettivi molteplici” ha proseguito l’ex presidente del Consiglio. “Dato il ruolo cruciale di stabilizzazione dei bilanci nazionali, abbiamo bisogno di regole che consentano alla politica anticiclica di rispondere agli shock locali: abbiamo anche bisogno di regole che facilitino il massiccio fabbisogno di investimenti di cui abbiamo bisogno, e dobbiamo garantire la credibilità a medio termine delle politiche fiscali nazionali in un contesto di livelli di debito post-pandemia molto elevati”, ha detto, ricordando che la Commissione europea ha cercato di risolvere questi compromessi proponendo di concentrarsi su una regola di spesa legata alla traiettoria del debito a medio termine di un Paese. “Se guardiamo al futuro, dobbiamo riconoscere che le regole fiscali veramente credibili non possono funzionare senza un equivalente ripensamento di dove dovrebbero risiedere i poteri fiscali: poiché le regole automatiche rappresentano una devoluzione di poteri al centro, possono funzionare solo se sono accompagnate da un maggior grado di spesa da parte del centro”, ha concluso.
Secondo Draghi “in Europa manca una strategia per integrare la spesa a livello comunitario, le norme sugli aiuti di Stato e i piani fiscali nazionali, come dimostra l’esempio del cambiamento climatico. Al termine di Next Generation Eu, non vi è alcuna proposta per uno strumento federale che lo sostituisca, per realizzare la spesa necessaria per il clima: le norme europee sugli aiuti di Stato limitano la capacità nazionale di perseguire attivamente una politica industriale verde, e le nostre regole fiscali non prevedono eccezioni per consentire investimenti sufficienti nel lungo termine”, ha spiegato, aggiungendo che alla luce di questa situazione rimangono due opzioni per raggiungere gli obiettivi ambientali e preservare la nostra base industriale. “Possiamo allentare le norme su aiuti di Stato e regole fiscali, consentendo agli Stati membri di assumersi interamente l’onere della spesa per investimenti, anche se questo porterebbe ad ulteriore frammentazione dal momento che i Paesi con maggiore spazio fiscale avranno più capacità di spesa; oppure ridefinire l’Unione europea, il suo quadro fiscale e il suo processo decisionale, commisurandoli alle sfide del momento”, ha concluso.
“L’Europa, fino ad oggi, non ha mai affrontato così tanti obiettivi sovranazionali condivisi, ovvero impossibile da gestire per i singoli Paesi: il continente sta vivendo una serie di transizioni che richiederanno grandi investimenti comuni. È il caso della transizione verde, che secondo la Commissione europea richiederà oltre 600 miliardi all’anno da qui fino al 2030; e della transizione geopolitica derivante dalla competizione tra Stati Uniti e Cina, che impedisce di fare affidamento su Paesi considerati ostili per quanto riguarda le forniture critiche, chiedendo un riorientamento verso la produzione nazionale; e della guerra in Ucraina, che impone una transizione verso una difesa comune europea”, ha spiegato, aggiungendo che, allo stato attuale, la struttura istituzionale dell’Europa “non è adatta a realizzare queste transizioni, come rivela il confronto degli Stati Uniti”.
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