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Diritti delle donne e Banca centrale: i decreti di Erdogan scatenano le polemiche

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Fanno discutere l’opinione pubblica turca e la comunità internazionale due controverse decisioni siglate nelle ultime ore dal presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan. La prima, che ha suscitato reazioni anche all’estero, è quella di ritirare la Turchia dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, anche nota come Convenzione di Istanbul, siglata da 32 Paesi nel 2011. La seconda, in un altro contesto, è la decisione di licenziare il governatore della Banca centrale, Naci Agbal, nominato meno di cinque mesi fa nel pieno di una crisi valutaria e apprezzato dagli investitori internazionali per le sue prime scelte di politica monetaria. Per nessuna delle due decisioni, pubblicate nella Gazzetta ufficiale di Ankara, è stata fornita una spiegazione ufficiale. A favore della prima sembra aver pesato l’opposizione degli strati più conservatori della società turca, che secondo la stampa locale ritengono il trattato dannoso per “l’unità della famiglia”. Nel caso della seconda, il motivo è probabilmente l’opposizione programmatica di Erdogan ai tassi d’interesse elevati, visto che il licenziamento di Agbal – sostituito dall’economista Sahap Kavcioglu – giunge a poche ore da un nuovo aumento del tasso di riferimento al 19 per cento, deciso dalla Banca centrale di Ankara lo scorso 18 marzo.


La decisione relativa alla Convenzione, a detta di molti osservatori, non sarà accolta con favore da diversi Paesi dell’Unione europea, e potrebbe allontanare ulteriormente Ankara dalla prospettiva di un’adesione all’Ue. La rimozione di Agbal invece potrebbe suscitare preoccupazioni per la stabilità valutaria del Paese, specialmente se il nuovo governatore dovesse ritornare alla politica di bassi tassi d’interesse che ha favorito il deprezzamento della lira. Pochi giorni fa le autorità turche sono state inoltre oggetto di polemiche anche per l’avvio di una causa, da parte del procuratore capo della Corte di Cassazione Bekir Sahin, per ottenere la messa al bando del filo-curdo e progressista Partito democratico dei popoli (Hdp), seconda principale forza di opposizione al partito Giustizia e sviluppo (Akp) di Erdogan. La formazione è accusata di avere legami con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Contro la causa si sono pronunciati ufficialmente gli Stati Uniti, che in una nota del dipartimento di Stato hanno definito “preoccupanti” le mosse di Ankara contro l’Hdp. Agli Usa la diplomazia turca ha risposto con un duro comunicato, invitando Washington a rispettare le procedure di tribunali turchi indipendenti.

Dopo la decisione relativa alla Convenzione di Istanbul, la ministra turca della Famiglia, del Lavoro e dei Servizi sociali, Zehra Zumrut Selcuk, ha scritto sul suo profilo Twitter che i diritti delle donne sono “già garantiti” dalla legislazione interna, specialmente dalla Costituzione. Secondo Selcuk il sistema turco è “abbastanza dinamico e forte” per attuare nuovi regolamenti, a seconda dei bisogni. La violenza contro le donne è “un crimine contro l’umanità”, ha proseguito, e la Turchia continuerà a lottare contro la violenza in base al principio “tolleranza zero”. Il vicepresidente turco Fuat Oktay ha invece scritto su Twitter che il governo cercherà di ampliare la sua “sincera lotta” per condurre la reputazione e dignità delle donne al livello meritato, proteggendo al contempo “la struttura sociale tradizionale”. “Non c’è bisogno di cercare rimedi esterni o di imitare altri per questo obiettivo fondamentale. La soluzione si trova fra le nostre tradizioni e i nostri costumi”, ha scritto Oktay. Ankara era stata la prima a ratificare ufficialmente la Convenzione, il 12 marzo 2012. Obiettivo dell’accordo è la creazione di un quadro legale per impedire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica, come anche la promozione dell’uguaglianza.

Secondo il quotidiano turco filo-governativo “Daily Sabah”, coloro che si oppongono all’intesa in Turchia ritengono che il trattato mini l’unità della famiglia, incoraggi il divorzio e che “sia utilizzato dalla comunità Lgbt per ottenere una più ampia accettazione nella società”. Dall’altro lato, chi critica il ritiro sostiene che la mossa allontani Ankara ulteriormente dall’adesione all’Unione europea (Ue), e ritiene anzi che il patto debba essere applicato in maniera più rigorosa. La pubblicazione del decreto presidenziale ha suscitato la rabbia degli attivisti per i diritti civili e appelli a proteste nella città di Istanbul. L’opposizione afferma che il ritiro avrebbe dovuto essere dibattuto in parlamento, prima del decreto presidenziale. Secondo Gokce Gokcen, vicepresidente del principale partito di opposizione, il Partito popolare repubblicano (Chp), abbandonare il trattato significa “mantenere le donne come cittadini di seconda classe, e lasciare che vengano uccise”.

Per quanto riguarda la Banca centrale invece la nomina di Agbal, lo scorso novembre 2020, sembrava indicare – insieme alle dimissioni dell’allora ministro delle Finanze e genero di Erdogan, Berat Albayrak – un importante cambio di paradigma nella politica economica e monetaria del presidente turco, in un momento in cui la lira turca aveva raggiunto il record negativo di 8,58 sul dollaro Usa. Con l’obiettivo di ridurre il tasso d’inflazione, attualmente vicino al 16 per cento, al 5 per cento, Agbal ha aumentato progressivamente il tasso sulle operazioni Pct a una settimana, dal 10,25 dello scorso ottobre fino a raggiungere il 19 per cento del 18 marzo, in misura superiore alle aspettative degli analisti. Dalla nomina di Agbal, il 7 novembre, la lira ha recuperato il 15 per cento del suo valore.

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