Dopo mesi di manovre, convergenze tattiche e accordi puntuali, i presidenti del Messico, Andres Manuel Lopez Obrador, e dell’Argentina, Alberto Fernandez, mettono nero su bianco la volontà di creare un nuovo asse strategico regionale. Un’intesa tra il “polo nord” e il “polo sud” dell’America latina da offrire come alternativa terza in un continente da decenni diviso tra la fedeltà agli Stati Uniti e l’ascolto delle sirene socialiste, sia l’eterna Russia o l’arrembante Cina. Forti di una spiccata affinità personale, i due capi di stato scommettono sulla possibilità di occupare spazi di una scena politica in mutamento, non a caso poche settimane dopo l’insediamento negli Stati Uniti del nuovo presidente, Joe Biden. La dichiarazione congiunta, firmata al termine della recente visita di Fernandez a Città del Messico, è il riassunto dei molti dossier aperti tra due delle tre economie più forti dell’America latina, tolto il Brasile.
Fernandez è sbarcato in Messico a inizio settimana, unico capo di stato straniero ospite delle cerimonie di celebrazione dei duecento anni di indipendenza del paese nordamericano. Uno scenario non privo di valore: per molti paesi della regione, l’emancipazione dalle colonie non è solo un evento da ricordare nei libri di storia ma anche motivo di una costante rivendicazione di identità. E ancor di più per Lopez Obrador, che con la consueta combinazione di cortesia e perseveranza attende dalla Spagna “scuse” per il trattamento riservato alle popolazioni indigene dai “conquistadores”. Nella famiglia politica e nelle battaglie personali di Fernandez e Lopez Obrador, la lotta a vecchi e nuovi colonialismi si intreccia inoltre con quella ai governi “neoliberali” che li hanno preceduti, alfieri del mercato e attaccati per la loro “indifferenza” alle esigenze dei cittadini.
“Amlo” rivendica i successi della “quarta trasformazione”, un ambizioso piano di riforme pensato per cambiare le fondamenta etiche dello stato, spazzando la corruzione, ossigeno degli interessi della politica e dell’imprenditoria privata a danno del bene pubblico. Fernandez non perdona al suo predecessore, l’imprenditore Mauricio Macri, l’accordo per il maxi prestito da 57 miliardi di dollari, stretto a condizioni “vergognose” con il Fondo monetario internazionale (Fmi). Un debito che “dovranno pagare tutti gli argentini” ha ribadito una volta di più Fernandez, primo capo di stato straniero ad essere ospitato nella “mananera”, la tradizionale conferenza stampa che Lopez Obrador celebra tutte le mattine dal palazzo presidenziale.
Messico e Argentina lanciano la loro scommessa in un momento di mobilità degli equilibri politici della regione. L’arrivo di Biden alla Casa Bianca potrebbe sfumare alcuni contorni dei dossier combattuti in modo più deciso dal predecessore, Donald Trump: su tutti, la pressione senza sconti al Venezuela di Nicolas Maduro, o la gestione delle politiche migratorie. Entro l’anno poi si conosceranno i nuovi presidenti di due paesi di media grandezza come Ecuador e Perù, con il primo che potrebbe tornare sulle tracce neosocialiste di Rafael Correa il cui delfino, Andrés Arauz, ha chiuso il primo turno delle presidenziali in netto vantaggio sul banchiere conservatore Guillermo Lasso. Da non ignorare, al tempo stesso il ritorno sulla scena e la ripresa di visibilità di istanze come il “Gruppo di Puebla”, consesso di attuali e precedenti governanti di area progressista fondato nell’omonima città messicana nel 2019. Un cambio di pelle che non riporta comunque la regione al dominio progressista dei primi anni del secolo, vista ora la presenza tra gli altri dei governi di Brasile, Cile e Colombia.
I due paesi si mostrano in totale sintonia sul tema dello sviluppo e della distribuzione dei vaccini contro il nuovo coronavirus, tema che funziona da leva per scardinare gli equilibri tra il nord e il sud del mondo. A metà mese il ministro degli Esteri del Messico, Marcelo Ebrard ha denunciato al Consiglio di sicurezza “la diseguaglianza, l’iniquità che c’è nell’accesso ai vaccini. I paesi che producono il farmaco hanno tassi di vaccinazione molto alti, mentre America latina e Caraibi molto meno” spiegava il ministro. Nella dichiarazione congiunta, così come in diversi incontri del G20, Messico e Argentina sottolineano che oggi “più che mai, la pandemia ha messo in evidenza l’importanza di mantenere l’America latina e i Caraibi unita e solidale”, con pieno accesso ai vaccini e, possibilmente autosufficiente. Grazie a un accordo stretto l’estate scorsa l’Argentina produce il principio attivo del vaccino AstraZeneca, che viene inflaconato in Messico con il progetto che venga somministrato in tutta la regione, eccetto il Brasile che sta sviluppando una sua linea di produzione. Il Messico, che lavora a un farmaco dal probabile nome “Patria”, ha anche rinunciato temporaneamente a una quota di fornitura del farmaco Pfizer per dare priorità ai paesi che erano senza vaccini.
Nell’accordo si mette quindi in chiaro la necessità che i vari focolai di tensione nel continente debbano essere risolti senza interventi dall’esterno, ma nel “rispetto dell’autodeterminazione, del dialogo, del negoziato, della ricerca del consenso e della soluzione pacifica delle controversie”. Un appello “alla costruzione del multilateralismo” che arriva dritto alla segreteria generale dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa), retta dall’uruguaiano Luis Almagro tante volte accusato di mettere gli interessi di Washington avanti a quelli degli altri partner regionali. “Le missioni di osservazione elettorale dell’Osa devono essere strettamente ispirati a criteri tecnici oggettivi”, avvertono i due capi di stato ricordando gli “sconfinamenti” del recente passato e auspicando che non si ripeta “quanto accaduto in Bolivia nel 2019”. Allora, proprio un rapporto Osa decretò in fretta la presenza di frodi nelle elezioni presidenziali costringendo Evo Morales, dichiarato vincitore, a riparare prima in Messico e quindi in Argentina. Mentre gli usa sostenevano il governo ad interim di Jeanine Anez, il leader “cocalero” sarebbe ripartito da Buenos Aires per organizzare la battaglia elettorale che ha portato il “suo” ex ministro delle Finanze, Luis Arce, a conquistare la presidenza, mentre il governo messicano ha garantito asilo a molti leader boliviani finiti nel mirino della giustizia.
I protagonisti del nuovo asse si sono anche più volte smarcati dalla posizione dominante sul tema Venezuela, quello di una intensa pressione per le dimissioni di Maduro interpretata in primo luogo da Washington e dai dodici paesi latinoamericani aderenti al “Gruppo di Lima”. Da ultimo, il Messico si è opposto alla risoluzione Osa che condannava le elezioni parlamentari venezuelane del dicembre 2020 come “una farsa”, inadatte a conferire legittimità all’Assemblea nazionale passata in mano ai socialisti. L’Argentina – “convinta che non si possa dall’estero non tenere conto della volontà manifestata” dagli elettori “né dettare condizioni ai processi elettorali senza contribuire minimamente al loro svolgimento o promuovendone addirittura il boicottaggio” – è stata tra i cinque paesi che si sono astenuti. A settembre 2020 il Messico ha quindi fino all’ultimo cercato di appoggiare la candidatura dell’ex ministro della Giustizia argentino, Gustavo Beliz, alla guida della Banca interamericana dello sviluppo (Bid). La vittoria di Mauricio Claver-Carone, consigliere dell’allora presidente Trump e paladino della linea anti-castrista della Casa Bianca, rompe una tradizione che aveva sempre voluto nomi di latinoamericani alla guida dell’organismo, segnando una battuta d’arresto per la strategia di Buenos Aires e Città del Messico.
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