Continuano ad aumentare d’intensità le proteste in Myanmar contro il colpo di Stato militare dello scorso primo febbraio che ha portato alla deposizione della leader Aung San Suu Kyi, da allora agli arresti domiciliari con l’accusa di aver importato illegalmente ricetrasmittenti e di aver violato la legge sui disastri naturali. Nelle ultime ore, i manifestanti hanno preso a bloccare alcune delle strade principali della più grande città del Paese, Yangon, mentre in decine di migliaia hanno raggiunto il centro per quello che potrebbe essere il più grande corteo di protesta visto finora in Myanmar. I dimostranti continuano a chiedere ai militari di lasciare il potere alle autorità civili e di liberare le personalità politiche arrestate a seguito del golpe. La protesta odierna, che rischia di paralizzare il traffico nel principale snodo commerciale del Paese e che punta a ostacolare il movimento dei veicoli militari in città, è stata organizzata in particolare attraverso i social media. Agli impiegati pubblici è stato inoltre chiesto di non andare al lavoro.
Tom Andrews, relatore delle Nazioni Unite per i diritti umani nel Myanmar, ha avvertito che lo schieramento dei militari nelle strade delle principali città di quel Paese, e gli inviti a nuove proteste da parte degli attivisti che manifestano da giorni contro il golpe militare rischiano di innescare una spirale di violenza. Riferendosi all’afflusso di truppe e veicoli blindati a Yangon, capitale commerciale del Myanmar, Andrews ha dichiarato che “in passato, simili movimenti di truppe hanno preceduto uccisioni, sparizioni e arresti su basta scala”. “Sono terrificato che la confluenza tra questi sviluppi – la pianificazione di nuove proteste di massa e la convergenza di truppe – possa condurre sul baratro di nuovi e maggiori crimini contro il popolo di Myanmar da parte delle forze armate”. Le forze armate hanno infatti schierato veicoli blindati nelle strade di Yangon a partire dallo scorso 15 febbraio, e istituito un blackout notturno di internet.
Myanmar, ieri un secondo capo di imputazione per San Suu Kyi
Ieri, 16 febbraio, la polizia del Myanmar ha emesso un secondo capo d’imputazione contro Aung San Suu Kyi. Lo ha reso noto il suo avvocato, Khin Maung Zaw, secondo cui la leader birmana dovrà rispondere anche dell’accusa di aver violato la Legge sui disastri naturali. Nelle scorse settimane Aung San Suu Kyi, 75 anni, era già stata incriminata per l’importazione illegale di ricetrasmittenti rinvenuti all’interno della sua abitazione nel corso di un blitz della polizia. Attualmente, la donna si trova agli arresti domiciliari: il termine della custodia cautelare, già prorogato una prima volta, è in scadenza nella giornata di domani. La data della prossima udienza in tribunale è fissata per il prossimo primo marzo. Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, ha già trascorso in passato 15 anni agli arresti domiciliari dopo aver tentato di porre fine al regime militare in Myanmar. Secondo l’Associazione di assistenza per i prigionieri politici, sono più di 380 le persone arrestate dopo il golpe. La giunta militare ha emesso mandati di arresto anche per gli attivisti democratici che sostengono le proteste e avvertito l’opinione pubblica di non ospitare gli attivisti fuggitivi. Le forze armate stanno dando la caccia, in particolare, a sette attivisti, tra i quali Min Ko Naing, già in prima linea nelle proteste del 1988.
La notte del primo febbraio i vertici militari del Myanmar hanno preso il potere arrestando la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi, il presidente Win Myint e i vertici della Lega nazionale per la democrazia (Nld). Il colpo di Stato non ha colto di sorpresa gli osservatori più attenti: a poche ore dalla sessione inaugurale del Parlamento emerso dalle elezioni legislative del novembre del 2020, la tensione nel Paese asiatico era stata infiammata dalle dichiarazioni di due generali che avevano aleggiato lo spettro del golpe e dell’abolizione della Costituzione in vigore dal 2008, così come dall’inquietante incremento della presenza di veicoli militari blindati per le strade di Yangon. I militari contestano i risultati del voto dello scorso novembre, a loro dire macchiato da brogli ai danni della forza politica da essi appoggiata, il Partito dell’unione per la solidarietà e lo sviluppo (Usdp), che a fronte della larga vittoria dell’Nld di Aung San Suu Kyi si era visto accordare solo il cinque per cento dei seggi della nuova assemblea legislativa. Accuse che tuttavia la Commissione elettorale dell’unione (Uec) ha bollato come pretestuose, confermando i risultati e dando luce verde alla prima riunione del Parlamento.
Il golpe, dunque, appare legato al timore dei vertici militari di perdere influenza sulla vita politica del Paese. Eppure, si tratta di una chiave di lettura insufficiente a spiegare quanto avvenuto. L’Usdp è certamente uno strumento importante a disposizione dei militari per continuare a pesare sugli equilibri politici anche dopo lo scioglimento, nel 2011, della giunta militare al potere dal 1962: basti pensare che i dirigenti del partito sono quasi tutti militari in congedo con forti legami con i generali attualmente ai vertici delle forze armate. Tuttavia, non è l’unico. L’attuale Costituzione, approvata nel 2008 con il favore dei generali all’epoca al potere, consente alle forze armate di controllare tre ministeri (Difesa, Affari interni e Affari di frontiera) e di nominare il 25 per cento dei deputati del Parlamento. La Costituzione stabilisce inoltre che il presidente ha il potere di dichiarare lo Stato d’emergenza solo dopo aver consultato il Consiglio di sicurezza e difesa nazionale (Ndsc), controllato dai vertici militari.
L’inquadramento del golpe militare
Il colpo di Stato va dunque inquadrato anche, se non soprattutto, nella sua dimensione internazionale. Situato geograficamente tra due potenze regionali come Cina e India, il Myanmar è un Paese chiave per la definizione dei futuri assetti geopolitici in Asia. Soprattutto, è un Paese al quale negli ultimi anni ha guardato con attenzione il presidente cinese Xi Jinping, considerandolo un tassello chiave della maxi-iniziativa infrastrutturale della Nuova via della seta, o Belt and road initiative (Bri). Il Corridoio economico Cina-Myanmar (Cmec), in particolare, è per Pechino di fondamentale importanza per garantirsi uno sbocco nell’Oceano Indiano, per facilitare l’approvvigionamento di petrolio dal Golfo Persico (evitando il collo di bottiglia dello Stretto di Malacca) e per favorire lo sviluppo delle sue province meridionali. Centrale, in questo senso, è lo sviluppo del porto e della zona economica speciale di Kyaukphyu, città dello Stato di Rakhine destinata anche a ospitare il terminal di un oleodotto che, passando per la città di Mandalay, si allungherebbe fino a Muse, al confine con la Cina. L’attuazione di tali progetti, tuttavia, è andata finora a rilento. Basti pensare che la Cina ha proposto un totale di 38 progetti nel quadro del Cmec e che il governo birmano, preoccupato dalla prospettiva di un eccessivo indebitamento nei confronti di Pechino, ne deve approvare ancora 29. La pandemia di Covid-19 ha rallentato ulteriormente le iniziative cinesi in Myanmar: il governo di Aung San Suu Kyi, che dovrebbe sborsare 7,5 miliardi di dollari per i progetti, è costretto in questa fase a dare priorità alla mitigazione dei danni economici provocati dalla seconda ondata di contagi e dalle conseguenti restrizioni alle attività. Tutto questo ha alimentato in questi anni forti tensioni tra Naypyidaw e Pechino, acuite dal sospetto che la Cina abbia un ruolo nel sostegno ai gruppi attivi in Myanmar.
La Repubblica popolare ha sempre negato ogni coinvolgimento negli scontri che in questi anni hanno visto l’Esercito di Arakan, gruppo armato indipendentista di base nello Stato di Kachin, al confine con la Cina, opporsi alle forze armate birmane. Tuttavia nel giugno del 2020 in Thailandia un blitz della polizia ha portato al rinvenimento di un grande quantitativo di armi di produzione cinese nella città di Mae Sot, proprio al confine con il Myanmar, che secondo fonti birmane sarebbe stato destinato all’Esercito di Arakan. Pochi giorni dopo il generale Min Aung Hlaing, capo delle forze armate del Myanmar, ha dichiarato in un’intervista all’emittente televisiva russa “Zvezda” che “le organizzazioni terroristiche nel Paese sono sostenute da forti attori all’estero”. Meno di un anno prima, nel novembre del 2019, erano state le stesse forze birmane a sequestrare un carico di missili superficie-aria agli insorti dell’Esercito nazionale di liberazione Ta’ang, quest’ultimo attivo negli Stati di Kachin e Shan. All’epoca il portavoce dell’esercito, generale Tun Tun Nyi, aveva sottolineato che quelle rinvenute erano “armi cinesi”.
A guardare con preoccupazione al presunto sostegno cinese ai gruppi armati birmani non era solo Aung San Suu Kyi, ma anche la vicina India, che sta sfidando la crescente influenza di Pechino nell’Asia meridionale e che negli ultimi mesi ha visto crollare ai minimi storici le proprie relazioni con la Cina. Una fonte militare di Nuova Delhi citata dal quotidiano “Times of India” sostiene che “l’Esercito di Arakan è finanziato al 95 per cento dalla Cina” e che la strategia di Pechino è tesa a evitare che l’India incrementi la propria influenza in Myanmar. Non è un caso, fa notare la fonte, che il gruppo armato si sia sempre ben guardato dal danneggiare gli interessi cinesi e abbia invece colpito duramente quelli indiani: pochi mesi dopo la concessione di un contratto da 220 milioni di dollari all’indiana C&C Construction per la realizzazione del Progetto di trasporto multimodale Kaladan, nel gennaio del 2018 l’Esercito di Arakan entrò in azione e rapì cinque cittadini indiani e cinque birmani tra cui un membro del Parlamento, sabotando inoltre mezzi e materiali di costruzione.
La proverbiale “goccia che fa traboccare il vaso”, dal punto di vista di Pechino, potrebbe essere stata la decisione del Myanmar di acquistare vaccini anti-Covid dall’India. Il governo di Naypyidaw ha ricevuto a fine gennaio da Nuova Delhi 1,5 milioni di dosi in dono, dando il via cinque giorni dopo alla sua campagna di vaccinazioni, e contestualmente ha firmato un accordo col produttore indiano Serum Institute per l’acquisto di 30 milioni di ulteriori dosi. Un duro colpo alla Cina, che si sta battendo proprio con l’India per vincere la partita della “diplomazia dei vaccini” in Asia meridionale e che al Myanmar ha promesso soltanto 300 mila dosi. La Cina non ha condannato esplicitamente il colpo di Stato in Myanmar e si è limitata a “prenderne atto”. “La Cina e il Myanmar sono buoni vicini. Speriamo che tutte le parti possano risolvere le loro divergenze nel quadro della Costituzione e della legge, salvaguardando la stabilità politica e sociale”, ha dichiarato in conferenza stampa il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Wang Wenbin. Ma c’è di più: il 12 gennaio scorso, meno di tre settimane prima del golpe militare, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi incontrava a Naypyidaw il comandante in capo delle forze armate birmane, il già citato Min Aung Hlaing, il generale salito al potere a seguito del colpo di Stato e sul quale sono ora puntati gli occhi degli osservatori internazionali. “La Cina – dichiarava quest’ultimo al termine della riunione – sarà sempre una buona amica del Myanmar, e la cooperazione amichevole tra i nostri Paesi andrà certamente ad approfondirsi sempre di più. Le forze armate sono pronte a svolgere un ruolo attivo in questo quadro”.