Altri 15 manifestanti sono rimasti uccisi oggi in Myanmar negli scontri con le forze di sicurezza durante le proteste per il colpo di Stato dello scorso primo febbraio. Lo scrive il portale d’informazione “The Irrawaddy”, edito da dissidenti birmani in Thailandia, che aggiorna inoltre a 73 il conto delle vittime della giornata di ieri, la più sanguinosa dall’inizio della crisi. In totale, dal giorno del golpe, sono almeno 183 le persone rimaste uccise durante le proteste, mentre più di 2 mila sono quelle arrestate (fra queste, la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi e il presidente Win Myint). Anche oggi le forze del regime hanno continuato ad attaccare i manifestanti nelle maggiori città del Paese, tra cui Yangon, Mandalay, Myingyan, Hlaing Tharyar, Aunglan, Bago, Gyobingauk, Monywa e Aungban. Oggi pomeriggio, scrive “The Irrawaddy”, almeno tre persone, tra le quali una donna, sono rimasti uccisi nella carica della polizia a una dimostrazione antigolpista a Myingyan, nella regione di Mandalay. Diversi altri manifestanti sono stati feriti. Altri due dimostranti sono stati uccisi da colpi d’arma da fuoco a Mandalay, seconda città del Paese, mentre in sette hanno perso la vita in altre zone.
La giunta militare ha confermato la legge marziale in due distretti di Yangon, Hlaing Tharyar e Shwe Pyithar, che consentirà alle forze armate di esercitare l’autorità amministrativa e giudiziaria. Ma intanto la protesta va assumendo tratti sempre più anti-cinesi: Pechino è accusata dai manifestanti di sostenere la giunta militare e di aver favorito (se non addirittura orchestrato) il colpo di Stato che ha deposto la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi e il presidente Win Myint, e particolare scalpore ha fatto nei giorni scorsi un documento, pubblicato sui social, secondo il quale il Partito comunista cinese avrebbe convocato ufficiali birmani per chiedere protezione per gli interessi economici di Pechino in Myanmar. Questa mattina l’ambasciata della Repubblica popolare a Yangon ha dato notizia di almeno 32 fabbriche cinesi attaccate e date alle fiamme in Myanmar durante le violenze di ieri, con danni pari a circa 37 milioni di dollari. Negli attacchi sono anche rimasti feriti due lavoratori cinesi. Più tardi, in conferenza stampa, il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Zhao Lijian, ha definito gli episodi “molto gravi” e ha nuovamente sollecitato le autorità militari del Myanmar perché adottino misure urgenti volte a porre fine agli attacchi e a consegnare alla giustizia i responsabili delle azioni di ieri.
Pechino precisa che le società prese di mira – principalmente di abbigliamento – si trovano nella zona industriale di Shwe Lin Ban, nel comune di Hlaing Thar Yar, vicino Yangon. Secondo quanto riferito dal “Global Times”, due fabbriche cinesi note come Huanqiu e Meijie sono state gravemente danneggiate. L’ambasciata di Pechino ha contattato le aziende colpite e ha chiesto alla polizia locale di intervenire per garantire la sicurezza delle aziende e del personale. Nella nota, l’ambasciata ricorda che gli investimenti cinesi nell’industria tessile in Myanmar hanno creato quasi 400mila posti di lavoro nel Paese, e che simili episodi di violenza danneggeranno anche gli interessi del popolo birmano. Secondo quanto riferito da testimoni locali ai media, le fabbriche sono state prese di mira da gruppi formati da circa 20-30 motociclisti armati con sbarre di ferro, asce e taniche di benzina. Dall’altra parte c’è l’India, Paese che si sta ritagliando sempre più un ruolo di antagonista regionale della Cina e che negli ultimi anni ha rafforzato la propria presenza in Myanmar.
Il portale “Outlook India” ha riferito nelle ultime ore di diversi ufficiali militari birmani fuggiti dal loro Paese dopo aver ricevuto “l’ordine di sparare ai manifestanti” e di “picchiarli”. Dopo aver disobbedito agli ordini, un numero imprecisato di ufficiali birmani sono fuggiti in India. Rimane alta la preoccupazione per le loro famiglie, dopo che i militari birmani hanno minacciato di arrestare i familiari dei disertori. Già all’inizio di questo mese il Myanmar ha chiesto all’India di estradare gli agenti di polizia che hanno attraversato il confine. Il timore di Naypyidaw è che proprio in India possa formarsi un nucleo di disertori in grado di organizzare una resistenza alla giunta militare. Frattanto il Giappone ha fatto sapere, attraverso il capo di gabinetto Katsunobu Kato, che sta monitorando con attenzione gli sviluppi in Myanmar dopo il colpo di Stato dello scorso primo febbraio e sta valutando una risposta. “Il Giappone sta valutando come rispondere alla situazione in Myanmar in termini di cooperazione economica e politica, prendendo anche in considerazione le risposte di altri Paesi coinvolti”, ha spiegato l’alto funzionario. Parole che giungono dopo che la Corea del Sud ha annunciato la sospensione della cooperazione in materia di difesa con il Myanmar e l’imposizione di un divieto all’esportazione di armi verso il Paese dell’Asia meridionale.
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