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Altri 12 manifestanti uccisi dai militari in Myanmar, oltre 70 dall’inizio della crisi

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Altri 12 manifestanti sono rimasti uccisi quest’oggi in scontri con le forze di sicurezza in Myanmar, dove continua a degenerare la crisi aperta dal colpo di Stato militare dello scorso primo febbraio. Lo indica il quotidiano online “The Irrawaddy”, edito da dissidenti birmani di base nella vicina Thailandia. Sale così a oltre 70 il conto complessivo delle persone uccise da militari e da agenti di polizia durante la repressione delle proteste, con più di 2 mila arresti. I manifestanti sono scesi oggi in strada a Yangon e in diverse altre aree del Paese. Gli episodi più violenti sono avvenuti a Myaing, nella regione di Magwe, dove quest’oggi hanno perso la vita almeno otto persone. Altre otto sono rimaste ferite, due delle quali in maniera grave.


Oggi il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha diffuso una dichiarazione presidenziale nella quale condanna “fermamente” le violenze contro i manifestanti pacifici in Myanmar ed esprime “profonda preoccupazione” per le restrizioni nei confronti di personale medico, società civile, sindacati e giornalisti, ribadendo l’appello al rilascio delle persone arrestate “arbitrariamente”. “Il Consiglio di sicurezza esprime il suo continuo sostegno per la transizione democratica in Myanmar, sottolinea la necessità di proteggere le istituzioni democratiche, di astenersi dalla violenza, di rispettare pienamente i diritti umani e le libertà fondamentali, così come lo stato di diritto”. Inoltre, il documento “incoraggia il perseguimento di un dialogo costruttivo e di un processo di riconciliazione in accordo con la volontà e gli interessi del popolo birmano”. Alla giunta militare viene chiesto di “esercitare la massima moderazione”.

Il Consiglio di sicurezza dell’Onu esprime anche “forte sostegno” all’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean) e alla sua disponibilità ad assistere il Myanmar in maniera “positiva, pacifica e costruttiva”, appoggiando gli sforzi di mediazione del blocco regionale e ricordando i principi di “democrazia, aderenza allo stato di diritto, buona governance, protezione dei diritti umani e rispetto delle libertà fondamentali” inscritti nella Carta dell’Asean. Ancora, il Consiglio di sicurezza incoraggia l’inviata speciale dell’Onu per il Myanmar, Christine Schraner Burgener, a mantenere canali di dialogo e un intenso impegno “con tutte le parti in causa”, invitandola a “visitare il Myanmar il prima possibile”.

Sul piano umanitario, i 15 membri del Consiglio chiedono un accesso sicuro e senza impedimenti a tutte le persone bisognose, sottolineando come l’attuale situazione nello Stato di Rakhine e in altre regioni abbia “il potenziale per esacerbare le tensioni esistenti”. Secondo fondi Onu, circa un milione di persone hanno necessità di sostegno umanitario in tutto il Paese. Tuttavia, la risposta degli operatori è ostacolata dalle difficoltà di movimento e dalle interruzioni delle comunicazioni, dei trasporti e delle catene di fornitura. La crisi, ricorda il Consiglio, costituisce anche “un serio problema” per il ritorno volontario e in sicurezza dei rifugiati rohingya e degli sfollati interni.

Sempre oggi la leader birmana Aung San Suu Kyi, arrestata durante il golpe del primo febbraio, è stata incriminata anche con l’accusa di aver accettato pagamenti illeciti per un totale di 600 mila dollari. Lo ha confermato un portavoce della giunta militare al potere, il generale Zaw Min Tun. Si tratta dell’incriminazione più pesante sul capo della consigliera di Stato, premio Nobel per la pace nel 1991, che era già stata accusata di importazione illegale di ricetrasmittenti e di violazione della legge sui disastri naturali. Zaw Min Tun ha precisato che anche il presidente Win Myint e diversi ministri del governo di Aung San Suu Kyi sono accusati di corruzione. Il capo dello Stato, secondo i militari, avrebbe anche fatto pressioni sulla commissione elettorale perché non desse seguito alle denunce sulle irregolarità delle elezioni dello scorso novembre, a seguito delle quali la Lega nazionale per la democrazia (Lnd) di Aung San Suu Kyi ha ottenuto la stragrande maggioranza dei seggi del nuovo parlamento, il cui insediamento (previsto proprio per il primo febbraio) non è mai avvenuto proprio a causa dell’intervento delle forze armate. Al momento sia Aung San Suu Kyi che Win Myint restano agli arresti domiciliari.

Lo scorso primo febbraio, a poche ore dall’insediamento del nuovo parlamento emerso dalle contestate elezioni di novembre 2020, le forze armate hanno preso il potere arrestando la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, e il presidente Win Myint. Il parlamento sarebbe stato dominato dalla Lega nazionale per la democrazia (Nld) e avrebbe visto una presenza risibile del Partito dell’unione per la solidarietà e lo sviluppo (Usdp), la forza politica appoggiata dai vertici militari. Secondo i generali, guidati da Min Aung Hlaing, le elezioni sarebbero state macchiate da brogli e irregolarità e le autorità civili non avrebbero fatto nulla per porre rimedio. Il colpo di Stato in Myanmar sembra tuttavia legato anche alla rivalità geopolitica tra Cina e India, con molti osservatori che nelle ultime settimane hanno accusato deliberatamente Pechino di aver favorito l’ascesa dei militari a causa della sua insoddisfazione per il governo di Aung San Suu Kyi in un Paese in cui la Repubblica popolare ha in corso importanti progetti infrastrutturali.

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