A due anni dall’omicidio dell’ambasciatore d’Italia a Kinshasa, Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista del Programma alimentare mondiale (Pam) Mustapha Milambo, sono molte le perplessità che rimangono a fronte di evidenti negligenze nel garantire la sicurezza del convoglio sul quale il diplomatico viaggiava, così come sui responsabili individuati dalle autorità congolesi attualmente a processo a Kinshasa. Al termine di quattro mesi di udienze, lo scorso 16 febbraio l’alto magistrato Freddy Eune, presidente del tribunale militare della guarnigione di Kinshasa-Gombe, ha dichiarato concluso il dibattito, ritenendosi “sufficientemente informato” sui fatti del 22 febbraio 2021. Dallo scorso 12 ottobre, i cinque imputati Murwanashaka Mushahara André, Issa Seba Nyani, Bahati Antoine Kiboko, Amidu Sembinja Babu alias Ombeni Samuel e Shimiyimana Prince Marco – quest’ultimo indicato da due co-imputati come la persona che ha sparato all’ambasciatore – compaiono dinanzi al tribunale di Kinshasa, allestito nella cinta del carcere militare di Ndolo dove sono detenuti, con l’accusa formale di “omicidio, associazione per delinquere, detenzione illegale di armi e munizioni di guerra”. Un sesto imputato – noto con il nome di “Aspirant” e latitante dal giorno dell’agguato – è giudicato in contumacia con gli stessi capi di accusa.
A non convincere della versione congolese sono tuttavia alcune dichiarazioni rilasciate dagli stessi imputati in aula, che nelle ultime udienze hanno affermato di essere stati costretti a confessare sotto tortura la loro implicazione nell’omicidio dell’ambasciatore. Segni evidenti di tortura sulla pelle degli imputati sono stati sottolineati dinanzi al magistrato anche dal legale della difesa, Peter Ngomo, elemento che tuttavia non sembra sarà tenuto in considerazione dalla corte nel corso della prossima udienza, in programma il primo marzo, quando procuratore e difesa formuleranno le loro argomentazioni. La sensazione, espressa da chi ha seguito dall’inizio il caso Attanasio, è che la sentenza congolese sia già scritta. Nel corso delle tre inchieste avviate dal governo congolese, dalla Procura di Roma e dalle Nazioni Unite sono infatti emerse numerose discrepanze. I fatti coinvolgono peraltro da vicino due alti funzionari del Pam – il vicedirettore in Rdc Rocco Leone e il responsabile della sicurezza locale Mansour Luguru Rwagaza – che si sono appellati all’immunità, impedendo alla giustizia di procedere. Le loro versioni hanno sollevato diversi dubbi sulle responsabilità di chi avrebbe dovuto garantire un percorso senza rischi al convoglio dell’ambasciatore su una tratta – la Route nationale N2 – che è ritenuta fra le strade più pericolose del Paese ed era stata invece classificata come “verde” – quindi sicura – in vista della visita della delegazione. Il trasporto dell’ambasciatore e dei suoi collaboratori su due auto non blindate, e senza neppure la dotazione di giubbotti antiproiettile, sono solo alcuni degli elementi che hanno spinto la squadra della Procura di Roma, guidata dal procuratore aggiunto Sergio Colaiocco e coadiuvata dai Carabinieri del Ros, ad insistere nelle indagini.
Così, il 22 novembre scorso, la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza per aver “omesso per negligenza, imprudenza e imperizia (…) ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica dei partecipanti alla missione Pam e che percorreva la strada RN2 sulla quale, negli ultimi anni, vi erano stati almeno una ventina di conflitti a fuoco tra gruppi criminali ed esercito regolare”. Nell’est della Repubblica democratica del Congo (Rdc) sono infatti attivi almeno 120 gruppi armati, organizzazioni strutturate spesso su base etnica e dal funzionamento elastico, che agiscono senza precisi obiettivi politici ma sull’onda di affiliazioni che fanno di questa parte del Paese una delle più pericolose in Africa. Un contesto tanto più caotico per le implicazioni con gruppi frontalieri e connessi a conflitti passati, dal genocidio del Ruanda alle guerre intestine sviluppatesi in tutta la regione dei Grandi laghi: è questo il caso del Movimento 23 marzo (M23), gruppo ribelle che dopo la sconfitta del 2013 ha ripreso nel 2021 ad operare e avanza deciso verso Goma, capoluogo del Nord Kivu, la stessa provincia in cui è stato ucciso l’ambasciatore.
Contro l’M23 – come già contro le Forze democratiche alleate (Adf), altro gruppo armato locale – il governo di Kinshasa ha avviato un’operazione militare su larga scala insieme agli eserciti di altri Paesi regionali riuniti nella Comunità dell’Africa orientale (Eac). Sul fronte interno la situazione ha spinto inoltre il presidente Felix Tshisekedi a dichiarare lo stato d’assedio nelle province del Nord Kivu e del vicino Ituri, non riuscendo tuttavia a contenere le violenze e portando migliaia di persone a fuggire dalle loro case per il timore di attacchi. Nel complesso quadro di omissioni che circonda la vicenda Attanasio, si insinua anche il dubbio di una possibile complicità di membri delle Forze armate congolesi (Fardc) nell’agguato, elemento che farebbe cadere l’ipotesi inizialmente avvalorata di un rapimento a scopo di riscatto – Rwagaza ha parlato ai procuratori di una richiesta di 50 mila dollari da parte dei rapitori – a vantaggio di un piano premeditato e mirato sull’ambasciatore. L’ipotesi dell’esistenza di un basista era già stata avvalorata dalla testimonianza dei rangers del parco di Virunga, situato nei pressi del luogo dell’agguato ed ai quali la mattina del 22 febbraio era stato sconsigliato di avviare lavori su quel tratto di strada per non meglio precisati accadimenti che li avrebbero “impediti”. Il nuovo elemento è poi emerso con maggior forza nella testimonianza di un alto ufficiale congolese, raccolta nel libro inchiesta di Antonella Napoli “Le verità nascoste del delitto Attanasio”.
La fonte, che rimane anonima, ha fatto riferimento ad un commando proveniente dal Ruanda, intervenuto con la complicità di un colonnello dell’esercito con un obiettivo “politico e non economico”: quello di mettere sotto accusa a livello internazionale le Forze democratiche di liberazione del Ruanda (Fdlr), di prevalente formazione hutu e inizialmente accusate da Kinshasa dell’omicidio. Dichiarazioni, quelle del militare, che sebbene acquisite in parte dagli inquirenti italiani non hanno permesso di soddisfare la richiesta dell’ufficiale di protezione per sé ed i suoi familiari, né saranno prese in considerazione dal tribunale di Kinshasa. Sulla base degli elementi raccolti e delle evidenze acquisite dalle autorità militari, sarà difficile che il processo congolese che si avvia alla conclusione soddisfi le richieste di giustizia delle vittime, come quelle dei migliaia di firmatari della petizione “Verità per Luca, Vittorio e Mustapha” promossa dall’associazione per la libertà di stampa “Articolo 21”. L’auspicio è che l’udienza preliminare dei due dipendenti del Pam rinviati a giudizio dalla Procura di Roma, in agenda il prossimo 25 maggio, possa contribuire a fare maggiore luce su questa drammatica pagina della diplomazia italiana, udienza in vista della quale aumentano le richieste al governo di chiedere ufficialmente all’Onu la revoca dell’immunità alla quale Leone e Rwagaza si appellano.
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