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A 20 anni dall’operazione militare degli Stati Uniti l’Iraq tenta di risollevarsi

L’Iraq odierno, resta preda di divisioni settarie, insorgenze terroristiche, crisi economica e corruzione, ma in qualche modo sta cercando di uscire dalla condizione di Paese in guerra

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Sono passati 20 anni dall’operazione militare in Iraq guidata dagli Stati Uniti e dalle forze alleate iniziata tra il 19 e il 20 marzo 2003 e che portò un mese dopo alla fine del regime di Saddam Hussein, terminando ufficialmente il 18 dicembre 2011 con il ritiro delle Forze statunitensi, ma che ha visto il Paese preda della guerra civile almeno fino al 2017, con la sconfitta territoriale dello Stato islamico. Nel periodo di occupazione gli Stati Uniti persero 4.500 militari, 4.000 contractor, spendendo circa 2.000 miliardi di dollari. Per gli iracheni il costo dell’invasione e del lungo periodo di guerra civile che ne seguì fu di almeno 300.000 morti (tra il 2003 e il 2019), danni incalcolabili a infrastrutture e servizi, un sistema politico e di difesa completamente distrutto. Per gli Stati Uniti, l’invasione dell’Iraq ha messo in luce i limiti della capacità di esportazione della democrazia, frenando futuri impegni militari di tale portata all’estero. Come sottolinea un’analisi del “The New York Times”, “la Casa Bianca, il Congresso, l’esercito e le agenzie di intelligence vedono la guerra come una lezione di politica fallimentare, profondamente assorbita se non completamente appresa”.


L’Iraq odierno, resta preda di divisioni settarie, insorgenze terroristiche, crisi economica e corruzione, ma in qualche modo sta cercando di uscire dalla condizione di Paese in guerra. Gli indicatori macroeconomici, dopo la recessione del 2020 a causa della pandemia di Covid-19 e il crollo dei prezzi del petrolio, mostrano un’economia nuovamente in crescita che nel 2022 ha registrato (secondo stime del Fondo monetario internazionale) un +8 per cento rispetto al 2,8 per cento del 2021 e alla recessione del -11,3 per cento registrata nel 2020. Nel 2022, l’Iraq ha prodotto 4,61 milioni di petrolio barili al giorno, secondo “Iraq Oil Report”, registrando entrate record pari a 115,6 miliardi di dollari, circa 40 miliardi in più rispetto al 2021.

In questi ultimi anni, il Paese è riuscito in qualche modo a reggere all’urto della situazione economica internazionale e a sopravvivere all’ondata di proteste interne contro la corruzione e il ruolo oppressivo dell’Iran che hanno portato il Paese molto vicino a una nuova guerra civile a partire dall’ottobre 2019. I governi che si sono succeduti a quello filo iraniano Adil Abdul-Mahdi (15 ottobre 2018 – maggio 2020), l’esecutivo tecnico di Mustafa al Kadhimi e l’attuale governo eletto di Mohamed Shia al Sudani hanno posto particolare enfasi a riforme politiche, in particolare il complesso sistema basato sulla Costituzione del 2005 (che per convenzione affida il governo agli sciiti, la presidenza a un curdo e la presidenza del parlamento a un sunnita), con l’obiettivo di evitare situazioni di stallo come quella seguita alle elezioni dell’ottobre 2021, durato oltre un anno.

Una delle problematiche maggiori che ha caratterizzato l’Iraq in questi ultimi 20 anni è stata la progressiva influenza dell’Iran nella politica interna. Tale situazione ha la sua origine nel 2005 con la decisione degli Stati Uniti di mettere al bando il partito Baath, e in generale la minoranza sunnita, favorendo la salita al potere di esponenti della maggioranza sciita fortemente perseguitata dal regime. L’influenza iraniana è culminata durante la guerra contro lo Stato islamico quando nel 2014 il governo dell’allora premier Haider al Abadi non si oppose alla creazione di milizie sciite direttamente dipendenti dai Guardiani della rivoluzione iraniana, le cosiddette Unità della mobilitazione popolare sciita (Pmu). L’uccisione a Baghdad in un raid condotto da un drone statunitense nel gennaio 2021 del generale iraniano, Qassem Soleimani a capo della Forza Quds dei Guardiani della rivoluzione, ha avviato un parziale declino dell’influenza di Teheran sull’Iraq, che era stato spinto negli anni a importare elettricità e gas dal Paese vicino. Prima il governo guidato da Kadhimi e oggi quello di Al Sudani (nonostante quest’ultimo sia espressione di un’alleanza di partiti sciiti considerati filo-iraniani) hanno portato a una progressiva apertura verso i Paesi del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita. A partire dall’aprile 2021, Baghdad ha ospitato diversi round di colloqui tra funzionari di Riad e Teheran, svolgendo un importante ruolo di mediazione che ha contribuito all’accordo firmato lo scorso 10 marzo a Pechino, in Cina, tra i due Paesi rivali.

In questo contesto, da notare che proprio il giorno dell’anniversario dell’invasione Usa, una delegazione saudita di alto livello guidata dal ministro del Commercio dell’Arabia Saudita, Majid al Qasabi, è giunta nel Paese per discutere futuri investimenti nel Paese. La visita della delegazione saudita è stata preceduta ieri dalla firma di un accordo per il rafforzamento della sicurezza tra Iraq e Iran, firmato dal segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale iraniano, Ali Shamkhani, colui che ha mediato per Teheran il rilancio delle relazioni con Riad, e dall’omologo iracheno Qasim al Araji, alla presenza del primo ministro Al Sudani.

In un editoriale pubblicato lo scorso 18 marzo sul quotidiano panarabo di proprietà saudita “Asharq al Awsat”, il premier Al Sudani, commentando i 20 anni dall’inizio dell’operazione militare statunitense che portò alla caduta del regime di Saddam Hussein, ha ricordato che “l’Iraq è riuscito a formulare una costituzione incentrata sul popolo iracheno (sia uomini che donne) che ne garantisse i diritti alla libertà, alla dignità e all’uguaglianza”. Il premier iracheno ha aggiunto sottolineato che “la costituzione ha aperto la strada alla costruzione di uno Stato di cittadinanza paritaria, che deve rimanere il nostro obiettivo”. “Ci sforziamo di raggiungerlo nonostante tutte le difficoltà e le sfide”, ha proseguito Al Sudani.

Parlando della situazione attuale del Paese, secondo produttore di petrolio dell’Opec e quinto a livello mondiale, Al Sudani ha affermato: “Siamo all’apice di una nuova fase che cerchiamo di rendere prospera e a cui stiamo lavorando molto duramente. Abbiamo sviluppato un programma olistico per affrontare i problemi più urgenti che affliggono il Paese. Fin dal primo istante, abbiamo lavorato per rimuovere tutti gli ostacoli che ostacolano il progresso del Paese. Uno degli ostacoli più importanti è la corruzione finanziaria e amministrativa. Pertanto, sin dall’inizio, abbiamo preso l’iniziativa per eliminare questo problema nel quadro di un piano globale che aggiorneremo regolarmente”. Al Sudani ha proseguito sottolineando che il governo è determinato a “ricostruire l’Iraq nel quadro di una visione chiara e di una road map a più tappe”. Infine, Al Sudani ha sottolineato l’intenzione di proseguire con la diversificazione delle relazioni a livello internazionale: “L’abbondanza di risorse, la posizione strategica, la storia, il peso regionale e l’influenza dell’Iraq nell’economia mondiale significano che l’Iraq ha la capacità di svolgere un ruolo più importante che si addice alle sue reali dimensioni. E le sue buone relazioni con i Paesi amici hanno spianato la strada alla costruzione di partenariati bilaterali e multilaterali con molti paesi in tutto il mondo, e abbiamo molte altre relazioni da costruire”.

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