Nuova partnership per costruire un ponte tra due continenti | ||
Roma, 18 mag (Agenzia Nova) - La rinnovata attenzione di Roma per il continente africano, con i suoi problemi e le sue opportunità, ha animato oggi alla Farnesina la prima conferenza ministeriale Italia-Africa. I rappresentanti dei governi e delle diplomazie di oltre 50 paesi africani e di circa 15 tra organizzazioni internazionali e regionali hanno partecipato a quello che in tanti hanno considerato “un momento storico” per la creazione di “una nuova partnership strategica” e, in ultima istanza, di un “ponte fra due continenti”. Un’espressione, quest’ultima, cui ha fatto in particolare ricorso il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo intervento inaugurale. L’Italia è per il capo dello stato “un ponte fra l’Africa e l’Europa”, un ponte “libero da pregiudizi e pronto ad un confronto pragmatico e aperto”. Roma “ha fatto di queste caratteristiche la cifra della sua politica nei confronti dei partner africani, investendo nella formazione e nella valorizzazione delle competenze in favore della popolazione africana, a partire da quella femminile e giovanile, e su questi obiettivi dobbiamo lavorare insieme per realizzare uno sviluppo sostenibile e inclusivo", ha detto Mattarella. Parlando della necessità di conciliare la crescita con la distribuzione sostenibile delle risorse, il capo del Quirinale ha sottolineato l'importanza di puntare sull'esperienza dei distretti industriali, delle Pmi e delle cooperative italiane. "E' questa la chiave di volta di un percorso capace di individuare le potenzialità di sviluppo, fissando obiettivi realistici, concreti e verificabili".
Tutto questo al di là delle minacce, prima fra tutte quella del terrorismo. Un fenomeno che, secondo Mattarella, “non conosce confini e si nutre della divisione, della paura e dell'instabilità" e va affrontato con un'efficace e coordinata cooperazione nella lotta al terrorismo. "L'impegno dei paesi più esposti al pericolo fondamentalista, insieme a quello dell'Unione africana e delle organizzazioni regionali, ha dato vita a un'intensificazione dell'impegno contro il terrorismo. Anche attraverso il fattivo contributo italiano possono essere esplorate nuove forme di cooperazione fra Africa, Italia ed Europa. Occorre combattere la subcultura alla base del fondamentalismo e investire nella causa della pace", ha aggiunto il presidente della Repubblica. L’altro grande tema al centro del dibattito è quello delle migrazioni. Si tratta, per Mattarella, della “più dolorosa spoliazione di futuro dei tempi contemporanei": e i milioni di civili in fuga portano "disagio e sopraffazione che compromettono le capacità di sviluppo". "Il nostro compito – ha detto allora il capo dello stato - deve essere quello di lavorare insieme per far sì che venga meno la disperazione e crescano il benessere e la stabilità: si tratta di un obiettivo condiviso da Africa e Italia e dall'Africa e l'Europa”. "Nonostante gli straordinari progressi compiuti, sono necessari ulteriori sforzi per eliminare alla base le cause delle migrazioni. L'Italia sostiene politiche di lungo periodo: il nostro primo dovere è salvare vite umane e soccorrere chi si trova in sofferenza", tuttavia il fenomeno migratorio va affrontato "con un approccio multidimensionale" che tenga insieme la gestione dell'emergenza e la rimozione delle cause dei flussi migratori. E' in quest'ottica che abbiamo proposto il 'Migration compact': l'Europa ha il dovere di concorrere allo sviluppo e alla stabilità dell'Africa e il processo iniziato a La Valletta va portato avanti con determinazione. Solo così si possono creare condizioni tali da ridurre i flussi migratori", ha aggiunto il capo dello stato.
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Renzi: "L'Africa è la più grande opportunità per l'Europa" | ||
Roma, 18 mag - (Agenzia Nova) - Il contrasto tra minacce e opportunità nel rapporto con l’Africa è stato toccato anche dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, nell’intervento conclusivo del vertice. "L'Italia non ha nostalgia del passato ma del futuro. Un futuro in cui l'Africa non sia considerata come una minaccia ma come la più grande opportunità per l'Europa. A noi questo rapporto preme non solo per una visione etica e di giustizia, ma soprattutto per una questione politica e di utilità reciproca", ha detto Renzi. L'Italia, ha proseguito il premier, sta cercando di imporre la sua agenda in Europa su tre settori: la politica economica, un rinnovato approccio all'immigrazione e la cultura. “Possiamo vantare una grande storia fatta di cultura e valori e il 'migration compact' rappresenta la proposta italiana per avere uno sguardo strategico sul tema migratorio, dal momento che l'unica soluzione è una strategia di lungo periodo", ha detto Renzi, ribadendo la proposta italiana di formalizzare la richiesta di porre il tema migratorio come focus del prossimo Consiglio europeo di giugno. "Non basta raddoppiare i fondi della cooperazione, serve avere una strategia di lungo periodo", ha aggiunto. Quanto al tema della cultura, Renzi ha parlato della necessità di "riportare i valori culturali al centro dell'agenda" in modo da declinarli nei vari ambiti: dall'agro-alimentare all'energia, dalla tecnologia alla cooperazione universitaria. Una questione che s’intreccia anche con il problema legato al terrorismo, che “ha molto chiaro l'elemento dell'identità culturale e non è un caso che vada a colpire spesso luoghi simbolici”. Per questo "occorre lottare contro l'estremismo ma anche contro la superficialità di chi vorrebbe farci credere che il nemico è fuori di noi, mentre è dentro di noi. La chiusura delle frontiere non risolve niente, il problema è all'interno dei nostri confini", ha aggiunto Renzi, ribadendo che in occasione della presidenza italiana del G7 del prossimo anno occorre scegliere "un approccio diverso da quello che c'è stato finora". C'è bisogno, ha proseguito il presidente del Consiglio, "di essere più connessi, anziché creare muri: il nostro è il mondo della connessione e del dialogo e 38 miliardi di interscambio con i paesi africani sono ancora troppo poco. Siamo disponibili a fare un grande investimento in termini di energia, di tecnologia, di Pmi e di infrastrutture. L'Italia c'è su questo come sul tema dei diritti delle donne, sul clima e su tutti i principali dossier. Chiediamo in cambio all'Africa una sola cosa: l'amicizia, che non sia semplicemente un racconto sdolcinato ma un valore costitutivo. Preferiamo la piazza al muro, la comunità all'individualismo, il villaggio alla fortezza. C'è spazio per un diverso equilibrio internazionale", ha aggiunto Renzi.
L’attenzione italiana verso il continente africano è stata sottolineata anche dal ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Paolo Gentiloni, che in un punto stampa tenuto a margine della conferenza ha confermato come Africa e Mediterraneo restino “le prime aree di riferimento della nostra politica estera, oltre che una grande opportunità di sviluppo economico”. "Le aree di crisi in Africa sono gradualmente diminuite negli ultimi anni, come testimoniato anche dal significativo numero di elezioni che si svolgono quest'anno nel continente. Tuttavia permangono ancora aree di crisi: dalla Libia alla Somalia, al lago Ciad, al Corno d'Africa", ha aggiunto il titolare della Farnesina. Per garantire la sicurezza in Africa e nel Mediterraneo, secondo Gentiloni, è necessario “spezzare il circolo vizioso tra fallimento degli stati ed espansione degli estremismi. Il sostegno alla sicurezza e alla pace, ha precisato il capo della diplomazia di Roma, è una delle “macro-aree” di “investimento a lungo termine” dell’Italia sull’Africa. Il numero dei conflitti nel continente è diminuito, ha ricordato Gentiloni, ma il terrorismo fondamentalista rappresenta una minaccia sempre più insidiosa, in particolare con la “pericolosa capacità di infiltrazione” mostrata da Boko Haram in Nigeria e al Shabaab in Somalia. L’Italia, ha detto il ministro, è in prima linea per il rafforzamento della Libia, della Somalia e del Corno d’Africa: un impegno portato avanti anche grazie al lavoro di Carabinieri e Guardia di Finanza e alla copresidenza dell’Igad Partner Forum, (organizzazione dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo). Fondamentale, in ogni caso, resta l’obiettivo di rafforzare la resilienza degli stati e delle attività di peace-building, ha osservato Gentiloni.
Quanto alla Somalia, Gentiloni ha fatto sapere che l’Italia si batterà in sede Ue perché la missione dell’Unione africana Amisom resti in Somalia. Lo ha detto il ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Paolo Gentiloni, a margine del vertice Italia-Africa in corso alla Farnesina. Secondo il ministro, è necessario anche che nel paese vada avanti il processo di stabilizzazione, in particolare con lo svolgimento delle prossime elezioni e con un rapporto equilibrato tra le autorità centrali e i diversi stati. Si tratta, secondo Gentiloni, di una condizione “essenziale” per far fronte alla minaccia del gruppo jihadista al Shabaab, i cui attacchi sono sempre più violenti, ma la cui presa sulla popolazione locale è sempre inferiore. L’Italia, ha sottolineato poi il capo della diplomazia di Roma, ha un ruolo rilevante da giocare nel sostegno allo sviluppo economico dell’Africa e aspira a far crescere l’interscambio, attualmente sui 38 miliardi di euro, intorno al 5 per cento l’anno per il prossimo periodo. L’impegno italiano, ha ricordato il ministro, è in linea con l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile e con gli obiettivi dell’Agenda 2063 dell’Unione africana. L’Italia, ha detto Gentiloni, vede l’Africa come “una terra di opportunità” che “vivrà da protagonista il 21mo secolo in virtù del suo potenziale politico, economico e culturale”. Per questo motivo, occorre trasmettere la consapevolezza che l’intera Europa deve dare priorità all’Africa: i prossimi anni saranno decisivi per capire che direzione di sviluppo prenderà il continente. “Molti paesi africani – ha ricordato il titolare della Farnesina – hanno registrato progressi significativi e la speranza è di nuovo di casa in Africa”. Ma le sfide da vincere restano molte, “a partire dalla crescita demografica”: entro il 2050, ha osservato il ministro, la popolazione del continente raddoppierà e “sarà necessario creare nuove opportunità per combattere i rischi di radicalizzazione e instabilità sociale”. Inevitabile che anche il ministro degli Esteri toccasse il tema delle migrazioni, evidenziando come la proposta italiana del Migration compact abbia “riscosso grande consenso” tra i rappresentanti africani. "L'obiettivo è arrivare al Consiglio europeo di giugno con un pacchetto di decisioni. L'Europa si è impegnata sulla rotta balcanica con un investimento molto rilevante, che l'Italia ha condiviso, ora serve un impegno diverso. L'operazione da fare in Africa è più complessa. Non si tratta solo di utilizzare fondi della cooperazione ma di individuare 7-8 paesi maggiormente colpiti dal fenomeno, con i quali ingaggiare accordi per il contenimento dei flussi migratori", ha detto Gentiloni. "Occorre distinguere fra paesi sicuri con cui poter stringere accordi bilaterali e paesi in guerra. Serve un lavoro strategico e di lungo periodo, ma anche uno immediato per la gestione dell'emergenza e dei rimpatri. Bisogna evitare nuove impennate nella rotta del Mediterraneo centrale", mettendo in campo una strategia "prima che inizi una nuova emergenza", ha aggiunto il ministro.
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Dlamini-Zuma: "Roma modello economico per il continente" | ||
Roma, 18 mag - (Agenzia Nova) - Dall’altra parte, la presidente della Commissione dell’Unione africana Nkosazana Dlamini-Zuma ha affermato di guardare all’Italia come un possibile modello per i paesi africani. “L’Italia ha tanto da offrirci”, ha detto. “Il ricco patrimonio culturale, il modello economico incentrato sulle piccole e medie imprese, l’agrobusiness, l’industria tessile e alimentare”: un esempio “unico” che può aiutare l’Africa, “che ha grandi risorse naturali”, a “recuperare rapidamente il terreno perduto”. “Stiamo crescendo molto nonostante il crollo del prezzo delle materie prime”, ha sottolineato la Dlamini-Zuma, ma c’è ancora tanto da lavorare per lo sviluppo delle infrastrutture, uno dei pochi strumenti a disposizione per sradicare la povertà. Anche per questo, secondo la presidente della Commissione Ua, è importante che le imprese italiane continuino a investire nel continente in vari settori: dalle infrastrutture al turismo, passando per energia e artigianato. Sviluppare un tessuto economico di Pmi, ha osservato la Dlamini Zuma, consentirebbe di “redistribuire le ricchezze e aumentare i posti di lavoro”. “Dobbiamo rispondere alla grande pressione demografica creando nuove opportunità lavorative, trasformando la nostra economia. Se non lo facciamo, ne risentiremo anche sul piano della sicurezza”. Il terrorismo, ha ricordato Dlamini-Zuma, “non è un problema africano ma globale. Dobbiamo affrontare le ragioni profonde che attraggono i giovani verso il terrorismo”. Il dialogo però va bene fino a un certo punto: “È arrivato il momento di agire concretamente e insieme”. Lo stesso approccio vale per le migrazioni: “Non possiamo pensare che l’accordo fra Ue e Turchia vada bene anche per l’Africa. Si tratta di due realtà differenti”, ha sottolineato infine la presidente della Commissione dell’Unione africana.
Anche in quest’ottica, ha affermato dal canto suo il commissario per la Pace e sicurezza dell’Unione africana (Ua) Smail Chergui, il vertice Italia-Africa è un appuntamento di “enorme importanza” perché getta le fondamenta per un nuovo partenariato strategico tra le due parti. L’Unione africana è consapevole dell’importanza della partnership consolidata negli anni con l’Italia e ha intenzione di rafforzarla. Oggi “il nesso tra pace e sicurezza e sviluppo sostenibile non può essere sottovalutato, in particolare in un momento storico in cui l’Africa deve affrontare nuove minacce come il fondamentalismo, i flussi migratori, i cambiamenti climatici”. In questo senso, “la sicurezza è una condizione essenziale per lo sviluppo del continente” e “l’Unione africana ha fatto il possibile per assicurarla”. Un impegno tanto più importante nel corso del 2016, anno ricco di appuntamenti elettorali. “Le elezioni – ha ricordato il commissario Ua – dovrebbero essere un momento di unione e di rafforzamento della democrazia”, piuttosto che causa di crisi. Soprattutto mentre continua a crescere in Africa la minaccia del terrorismo e del fondamentalismo, anche “in regioni che prima ne erano immuni”. Questo perché, secondo Chergui, si consolida la cooperazione tra “il cosiddetto Stato islamico” e altre formazioni armate attive in diverse aree del continente: al Shabaab nel Corno d’Africa, Boko Haram in Africa occidentale, al Qaeda nel Maghreb. Una minaccia cui, ha ribadito il commissario Ua, occorre “rispondere in modo adeguato”, prendendo in considerazione anche “altre fonti di instabilità”: traffici di armi e di stupefacenti, tratta di esseri umani, riciclaggio di denaro e rapimenti costituiscono “una tendenza transnazionale che offre nuove opportunità di finanziamento ai gruppi terroristici”. Chergui ha parlato anche delle migrazioni, ricordando come l’approccio dell’Unione africana, delineato nel corso dell’ultima riunione dei capi di stato e di governo, sia tesa ad affrontare le cause alla radice: “guerra, emarginazione sociale, diseguaglianze, violazioni dei diritti umani, disoccupazione”.
Parlando ad “Agenzia Nova” a margine della conferenza, Chergui ha affrontato anche nel dettaglio le questioni relative a due crisi in corso nel continente. La Libia, ha affermato,l ’Unione africana sta pensando a una nuova iniziativa per promuovere la riconciliazione e riformare il settore della sicurezza. “È nostro dovere – ha sottolineato il diplomatico algerino - dare un contributo per la stabilizzazione della Libia. Si tratta di un problema africano. L’Unione africana ha creato un gruppo di contatto e ha nominato un nuovo inviato speciale per la Libia, l’ex presidente della Tanzania, Jakaya Kikwete. In questi giorni stiamo pensando di dare il via a una nuova iniziativa perché ciò che è stato fatto finora non è abbastanza”. Secondo Chergui, infatti, la situazione sul terreno sta diventando “sempre più complessa”, in particolare a causa dell’espansione dello Stato islamico, “e i rischi che ci troviamo ad affrontare sono sempre maggiori”. Della questione il diplomatico algerino ha parlato anche con il ministro della Difesa Roberta Pinotti nel corso del suo soggiorno a Roma. Al suo interlocutore, la titolare del Dicastero ha illustrato l’impegno italiano nella lotta al terrorismo, ma soprattutto ha evidenziato l’importanza di un’area Mediterranea stabile e una Libia realmente pacificata. All’ambasciatore Chergui il ministro ha rivolto l’auspicio che Italia e Unione africana possano continuare la collaborazione per la pace e la sicurezza nella regione. In una dichiarazione a “Nova”, Chergui ha parlato anche di Burundi, paese nel quale “è necessaria una maggiore presenza internazionale, sia per proteggere la popolazione civile che per limitare l’azione dei gruppi armati illegali”. L’Unione africana, ha ricordato Chergui, aveva pensato inizialmente all’invio di una missione di peacekeeping in Burundi, dove lo scorso anno la decisione del presidente Pierre Nkurunziza di candidarsi per un terzo mandato alla guida del paese ha aperto un’acuta crisi politica tuttora in corso. L’ipotesi di una forza Ua è stata tuttavia scartata dal governo di Bujumbura.
Nel frattempo, dopo la visita di una missione di alto livello dei capi di stato di Gabon, Senegal, Mauritania e Sudafrica e del capo del governo etiope, il Burundi “ha accettato il dispiegamento di 200 osservatori per il rispetto dei diritti umani e di 100 esperti militari”. Tuttavia, secondo il commissario dell’Unione africana, è ancora troppo poco. Serve, infatti, una maggiore presenza della comunità internazionale sia per assicurare la protezione dei civili (“continuiamo a ricevere notizie inaccettabili riguardanti episodi di violenza sulle donne”, ha sottolineato Chergui), sia per affrontare il problema dei gruppi armati illegali. “Con le Nazioni Unite – ha affermato il diplomatico algerino - stiamo pensando adesso a una missione delle forze di polizia. I colloqui a New York non sono ancora terminati, ma l’Unione africana è pronta. Siamo anche disponibili all’invio di una forza di stabilizzazione lungo il confine con il Ruanda, ma la questione va chiaramente discussa con le autorità”. Soprattutto, secondo Chergui, c’è bisogno di un accordo che ponga fine alla crisi politica. L’occasione per trovarlo sarà offerta dai colloqui che riprenderanno ad Arusha, in Tanzania, quando “tutte le parti s’incontreranno e tutte le questioni saranno poste sul tavolo”. Mankeur Ndiaye, ministro degli Esteri del Senegal, ha posto la necessità di “investire nei paesi di origine e transito dei flussi migratori, soprattutto nel settore agricolo, per dare un’alternativa ai giovani”. Moussa Faki Mahamat, capo della diplomazia del Ciad, ha rilevato come il terrorismo rappresenti un pericolo sempre più grave per la sicurezza e le economie del lago Ciad. “Boko Haram è indebolito dal punto di vista militare, come dimostra la nuova strategia degli attacchi kamikaze, causa delle numerose morti tra i civili”, ha affermato il ministro degli Esteri ciadiano, il quale ha fatto appello alla comunità internazionale affinché si mobiliti “per fare fronte al fenomeno”. Il presidente di turno del consiglio dell’Ua ha poi fatto riferimento alla situazione di instabilità nella vicina Libia. “La situazione merita tutta la nostra attenzione. Nel paese si fa sempre più forte la presenza dello Stato islamico. Il paese è inoltre meta delle migrazioni illegali verso l’Europa”. Siamo tutti chiamati a ripristinare la pace in quel paese”, ha affermato il capo della diplomazia ciadiana, che si è detto “lieto” per l’istituzione del governo di intesa nazionale in Libia. Tra le altre sfide che il continente africano di trova ad affrontare c’è anche quella del cambiamento climatico. Il prosciugamento del lago Ciad e il fenomeno climatico El Nino “sono solo alcune delle conseguenze del cambiamento climatico”. Tuttavia, nonostante le sue fragilità strutturali, “il continente africano ha delle potenzialità che non sono ancora state sfruttate a pieno. L’Africa, ha concluso Faki Mahamat, “ha bisogno di investimenti” e “partnership efficaci” e l’Italia in questo senso può giocare un ruolo decisivo.
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Messahel (Algeria): "Roma porta dell'Europa sull'Africa" | ||
Roma, 18 mag - L’Italia è la porta dell’Europa sull’Africa e l’Algeria è la porta dell’Africa sull’Europa. Lo ha detto il ministro per gli Affari del Maghreb, dell'Unione africana e della Lega araba, Abdelkader Messahel, in un’intervista rilasciata ad “Agenzia Nova” a margine della conferenza Italia-Africa, che si è tenuta oggi alla Farnesina. “Si tratta di un’iniziativa importante per discutere i problemi che riguardano le due sponde del Mediterraneo”, ha detto il ministro algerino, definendo “ottime” le relazioni economiche e politiche tra l’Italia e l’Algeria. “Roma è uno dei primi partner di Algeri. I legami tra i due paesi risalgono all’epoca della guerra di indipendenza: l’Italia ci ha aiutato molto e ci ha accompagnato nei periodi più difficili, soprattutto durante gli anni bui del terrorismo”. In quel periodo, Alitalia “è stata l'unica compagnia europea a servire il paese”. Secondo il ministro algerino la cooperazione tra i due paesi è molto forte soprattutto sul dossier libico. “La Libia è un paese molto vicino all’Italia, come anche all’Algeria. La collaborazione con Roma per risolvere la crisi in corso in quel paese è molto serrata e le nostre posizioni a riguardo sono convergenti”, ha detto Messahel. “Vogliamo che la Libia torni a essere un paese stabile e che resti unito, tornando a prendere il suo ruolo di primo piano nella regione. Abbiamo sostenuto la formazione del governo di accordo nazionale e oggi lavoriamo insieme per consolidare questo governo”, ha proseguito il ministro. “C’è bisogno di istituzioni forti se vogliamo fare fronte al terrorismo, perché questo si sviluppa quando ci sono istituzioni fragili, proprio come il fenomeno del traffico di esseri umani”. L’Algeria, come sottolinea Massahel, è pronta a fare la sua parte. “Abbiamo sofferto molto la piaga del terrorismo e dunque l’antiterrorismo fa già parte della strategia del governo algerino”, ha osservato il ministro, ribadendo la necessità di rafforzare le istituzioni nei paesi esposti alla minaccia terroristica e di adottare una strategia comune per contrastare il fenomeno: “Tutti devono prendere parte a questo processo, occorre parlare lo stesso linguaggio”. Un linguaggio che, oltre al tema della sicurezza e delle migrazioni, affronti anche quello decisivo dello sviluppo. “Il tema della sicurezza è legato a quello dello sviluppo e della migrazione. E’ necessario risolvere i conflitti che causano le migrazioni e favorire lo sviluppo del continente africano, oltre a rafforzare la lotta contro il cambiamento climatico”, ha proseguito il ministro algerino, ricordando che sono più numerosi i migranti che si spostano all’interno del continente rispetto a quelli che partono verso l’Europa. “L’Algeria stessa, che era un paese di emigrazione, è diventata oggi un paese di destinazione delle migrazioni”. In merito alle conseguenze del crollo dei prezzi delle materie prime sui mercati internazionali sull’economia algerina Messahel ha dichiarato che la situazione “non è allarmante”. “E’ vero - ha ammesso - abbiamo subito le conseguenze del calo del prezzo del petrolio, ma il governo di Algeri continua a sviluppare altri settori dell’economia. Tra questi, quello dell’agricoltura, del turismo e delle nuove tecnologie”. Il ministro ha inoltre rivendicato i successi economici della presidenza Bouteflika: “I primi anni sono stati dedicati alla risoluzione di problemi interni dell’Algeria, in seguito sono state adottare grandi politiche macroeconomiche che ci hanno permesso di disporre di grandi quantità di riserve e di cancellare il debito pubblico”. In riferimento alla crisi diplomatica tra il Marocco e le Nazioni Unite che ha seguito recente visita del segretario generale dell’Onu, Ban-Ki moon, ai campi profughi di Tindouf, il numero due della diplomazia algerina ha sottolineato che “si tratta di una questione tra il Marocco e le Nazioni Unite”. “La nostra posizione sulla questione del Sahara occidentale è rimasta immutata. Siamo per l’autodeterminazione del popolo saharawi, in linea con il diritto internazionale e la posizione delle Nazioni Unite", ha concluso Messahel.
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Yacouba (Niger): "Stabilità e sviluppo per frenare flussi migratori" | ||
Roma, 19 mag (Agenzia Nova) - Affrontare solo i sintomi del fenomeno migratorio senza far fronte alle sue cause è un errore e rischia di non portare ad alcuna soluzione. Lo ha detto in un’intervista ad “Agenzia Nova” il ministro degli Esteri del Niger, Ibrahim Yacouba, ieri a Roma per partecipare al vertice Italia-Africa alla Farnesina. “Quest’anno 200 mila migranti sono passati per il Niger e, secondo quanto previsto dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim, ndr), altre 150 mila persone attraverseranno il paese per raggiungere il Mediterraneo e approdare in Europa. Per tentare di gestire le cause del fenomeno, il governo nigerino ha messo in campo un programma da un miliardo di dollari indirizzato soprattutto ai giovani, perché sono soprattutto loro a partire”, ha detto Yacouba. “Occorre offrire loro la possibilità di un lavoro e rendere i terreni coltivabili, al fine di consentire a tutti di provvedere alla propria sussistenza alimentare”. Per fare questo “è necessario creare le condizioni di resilienza alle conseguenze dei cambiamenti climatici. Finché gli africani continueranno a vivere in condizioni di povertà, fino a quando ci saranno zone in cui vige l’instabilità, fino a quando non riusciremo a impedire che il cambiamento climatico distrugga i raccolti continueremo ad assistere a flussi migratori massicci”. A questo programma ambizioso, così Yacouba, sarà destinato il miliardo di euro che il Niger ha chiesto all’Europa durante la recente visita dei ministri degli Esteri francese e tedesco a Niamey. “L’Ue ha finanziato progetti per 75 milioni di euro, ma siamo ancora lontani dalle reali necessità di finanziamento”, ha osservato il ministro nigerino. In questo senso, il Niger ha accolto con favore la proposta contenuta nel Migration compact e inviata dal governo italiano all'Unione europea. “Nel corso della Conferenza Italia-Africa abbiamo ribadito il nostro sostegno a questo programma perché si concentra, tra le altre cose, su un punto decisivo, quello del finanziamento allo sviluppo dei nostri paesi”. Un fattore, quest’ultimo, che solo può porre un freno ai flussi migratori, che non accennano a diminuire “nonostante i drammi che si consumano nel Mediterraneo”. Il ministro ha inoltre salutato con favore la proposta di allargare il mandato delle missioni di pace Ue al contrasto al traffico di migranti, come previsto dallo stesso Migration compact. “La migrazione rappresenta anche un problema di sicurezza. Uno dei punti del nostro Programma per la gestione del fenomeno migratorio illegale e il contrasto al traffico di migranti prevede proprio il consolidamento delle capacità delle nostre forze di sicurezza”, ha detto Yacouba. “Abbiamo più di 5.200 chilometri di frontiere. Una caratteristica problematica da gestire per un paese come il nostro, che ha bisogno di formare e rafforzare le sue forze armate per mettere in sicurezza i suoi confini”. Non dimentichiamo, ha aggiunto il capo della diplomazia nigerina, “che il Niger è stretto tra l’instabilità del Mali a ovest, gli attacchi del gruppo jihadista Boko Haram a sud e il conflitto in Libia a nord”. Per questo, il paese "continua a destinare ingenti risorse al settore della sicurezza”. Una scelta che ha provocato numerose critiche. Il Niger è infatti all’ultimo posto della classifica sullo sviluppo umano stilata ogni anno dalle Nazioni Unite. “Siamo consapevoli del nostro ritardo in diversi campi dello sviluppo. Noi per primi subiamo le conseguenze degli scarsi servizi nei settori della sanità e dell'educazione, ma investire nella sicurezza è stata per noi un'esigenza fondamentale. Altrimenti, non avremmo avuto più alcuno stato”, ha detto il ministro, difendendo la scelta del governo di fare del settore della difesa una delle sue priorità.
“Non ci sono prospettive di sviluppo sociale in assenza di uno stato, non c’è sviluppo senza sicurezza. Ricordiamo ciò che è successo in Mali, dove lo stato è stato smantellato perché non si è investito abbastanza nella sicurezza. Il Mali avrebbe perduto il controllo di gran parte del suo territorio se non ci fosse stato l’intervento delle forze internazionali per respingere i terroristi. Garantire la nostra sicurezza ci è costato molto denaro e siamo qui per chiedere il sostegno della comunità internazionale”, ha insistito Yacouba. Tra le diverse operazioni messe in campo per fare fronte all’offensiva terroristica nella regione c’è la Forza multinazionale congiunta, istituita insieme a Nigeria, Camerun, Ciad e Benin. “Il bilancio delle operazioni condotte sinora è positivo”, ha rivendicato il ministro nigerino. "Abbiamo ridotto il raggio di azione di Boko Haram a livelli che non avremmo potuto immaginare prima dell’istituzione della Forza multinazionale congiunta. Oggi il gruppo ha perso il controllo di tutti i villaggi in Nigeria, dove fino a qualche tempo fa occupava un territorio grande quanto il Belgio”. Quella di Boko Haram è oggi “un'organizzazione agonizzante, che tuttavia continua a condurre attacchi kamikaze che provocano un gran numero di morti tra i civili. E’ su questo aspetto che dobbiamo continuare a lavorare”. Un modello, quello adottato nel bacino del lago Ciad, che secondo Yacouba potrebbe funzionare anche in Mali, dove a un anno dall’accordo di pace tra ribelli tuareg e governo e nonostante la presenza della forza a guida francese Barkhane, continuano a imperversare i gruppi jihadisti. “L’esistenza di gruppi terroristici in Mali rappresenta una minaccia anche per il Niger. I paesi del G5 Sahel (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Ciad e Niger, ndr) sono pronti a mobilitare le loro forze nel paese e fare la guerra ai terroristi con il sostegno dell’Onu e della comunità internazionale, sia dal punto di vista finanziario che logistico”, ha detto il ministro, sottolineando la necessità di allargare il mandato della missione Onu in Mali (Minusma) alla lotta al terrorismo. Una richiesta, quest’ultima, avanzata in più occasioni dallo stesso governo maliano per voce del suo ministro degli Esteri, Abdoulaye Diop. “Continuiamo a sostenere l’urgenza di un mandato offensivo per ridurre la minaccia terroristica in Mali, che rappresenta un pericolo anche per i paesi vicini”. La sicurezza del Niger, ha concluso, "riguarda tutti".
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Ghandour (Sudan): "Partenariato Italia-Africa è possibile" | ||
Roma, 20 mag (Agenzia Nova) - Un partenariato tra Italia e Africa “è possibile”, in particolare in settori quali gli investimenti, l’integrazione economica, lo sviluppo, la pace e sicurezza, le migrazioni e la lotta al terrorismo e all’estremismo. Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri sudanese, Ibrahim Ghandour, in un’intervista concessa ad “Agenzia Nova”. Ghandour, a capo della diplomazia sudanese dal giugno 2015, ha partecipato mercoledì scorso alla prima conferenza Italia-Africa, ospitata dalla Farnesina alla presenza dei rappresentanti dei governi e delle diplomazie di oltre 50 paesi africani e di circa 15 tra organizzazioni internazionali e regionali. “Siamo abbastanza soddisfatti, le discussioni sono state costruttive e abbiamo discusso di questioni molto importanti. Il messaggio che ne è emerso è che la cooperazione fra l’Africa e l’Europa può portare benefici a entrambi i continenti”, ha detto Ghandour, che a margine della conferenza alla Farnesina ha avuto un colloquio bilaterale con l’omologo italiano Paolo Gentiloni, il quale dovrebbe recarsi presto in Sudan a capo di una delegazione economica di alto livello. Uno dei temi centrali delle discussioni della ministeriale Italia-Africa è stata la questione migratoria, con la proposta italiana per il “migration compact” a tenere bando fra le cancellerie africane. “Non si possono affrontare le migrazioni illegali a livello di singoli paesi, servono politiche transnazionali e credo sia ciò che il governo italiano sta proponendo. La conferenza Italia-Africa ha certificato questo e, in questo senso, la cooperazione fra Africa ed Europa può portare benefici a entrambi i continenti. Apprezziamo l’impegno del governo italiano al riguardo”, ha detto Ghandour. Il processo di Khartoum, e la sua attuazione attraverso il Fondo fiduciario per l’Africa lanciato in occasione del vertice Ue-Africa de La Valletta del novembre scorso, “aiuteranno a contrastare la tratta degli esseri umani e i flussi migratori illegali”, affrontando le cause delle migrazioni illegali attraverso “la promozione della pace e della sicurezza, della lotta alla povertà e della creazione di opportunità di lavoro” e il contrasto degli effetti della siccità e della desertificazione, il tutto in una situazione “win-win”.
“La migrazione in sé – ha proseguito il capo della diplomazia sudanese – è un fenomeno positivo, se consideriamo che molti paesi si fondano su di essa”: è il caso, ad esempio, dello stesso Sudan, risultato della migrazioni di popolazioni provenienti dalla Penisola araba, dall’Africa orientale, dall’Africa occidentale e dall’Africa centrale; o degli Stati Uniti, la cui popolazione proviene dall’Irlanda, dall’America latina e dall’Africa. Al contrario, “la migrazione illegale costituisce un’emergenza, essendo spesso causa di terrorismo ed estremismo, e va contrastata attraverso la collaborazione fra diversi paesi, poiché presenta una connotazione transnazionale e intercontinentale. Per questo servono politiche in grado di prevenire le cause dell’immigrazione clandestina e del terrorismo”. Per quanto concerne le questioni interne alla vita politica sudanese, Ghandour ha ribadito come l’idea di dar vita al dialogo nazionale in Sudan – lanciata lo scorso mese di ottobre dal presidente Omar al Bashir – sia nata “non per negoziare con i gruppi armati sui temi della pace e della sicurezza, ma per discutere dei temi che riguardano tutti i sudanesi e che avrebbero dovuto essere discussi al momento dell’indipendenza del Sudan, nel 1956. Tali questioni includono la pace e la sicurezza, l’unità del popolo sudanese, l’economia, la lotta alla povertà, le libertà politiche, il riconoscimento dell’identità dei gruppi etnici e la governance del paese. Essi rappresentano i pilastri da seguire. (Al dialogo) sono stati invitati tutti, partiti politici e gruppi armati: molti vi hanno preso parte, in pochi hanno rifiutato e hanno preferito continuare a combattere”, ha detto il ministro sudanese. Quanto al Darfur, “ora è pacificato”, mentre “ci sono ancora pochi gruppi di ribelli in Nilo Azzurro”. Il Gruppo di alto livello dell'Unione africana per l’attuazione degli accordi di pace (Auhip), presieduto dall’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki, "sta negoziando con gruppi ribelli e ha proposto loro una 'roadmap' che finora è stata rifiutata. Ora il dossier è nelle mani dell’Unione africana”, ha aggiunto Ghandour. Riguardo alla cessazione temporanea delle ostilità, annunciata lo scorso mese dal Fronte rivoluzionario sudanese (Srf) – la coalizione che include le principali gruppi ribelli del Darfur e degli stati del Sud Kordofan e del Nilo Azzurro –, secondo Ghandour non si tratta di un passo nella giusta direzione. “Il cessate il fuoco temporaneo è stato già annunciato dal governo dal luglio a novembre scorsi, durante i negoziati coi ribelli, ma l’altra parte ha rifiutato. L’obiettivo non deve essere cessate il fuoco temporaneo ma un cessate il fuoco permanente, come previsto dalla ‘roadmap’ proposta dall’Unione africana”. Quest’ultima, insieme alla comunità internazionale e al governo sudanese, sta ancora aspettando “una mossa seria da parte dei ribelli”, che invece “continuano ad aggirare” la questione e questo “non aiuta a portare la pace nel paese”. Alcuni gruppi ribelli continuano a rifiutare di firmare la “roadmap” e “per me sbagliano”, essendo ormai schiacciati sul campo dalle forze aeree sudanesi e non avendo quindi altra scelta: “devono accettare la pace, questa è la sola via d’uscita”, ha aggiunto Ghandour.
In questo senso, i tempi per una “exit strategy” della missione delle Nazioni Unite e dell’Unione africana in Darfur (Unamid) “da tempo argomento di discussione fra il governo sudanese, l’Unione africana e l’Onu”, sono ormai maturi poiché “riteniamo che sia giunta l’ora che la missione lasci il Sudan”. La scorsa settimana una delegazione tripartita formata da esperti del governo di Khartoum, dell’Unione africana e delle Nazioni Unite ha visitato il Darfur “per constatare con i loro occhi che la pace è stata raggiunta”. Finora, ha ricordato Ghandour, “sono stati spesi 13 miliardi di dollari per la missione Unamid: se un quinto di questa somma fosse stata spesa in favore della popolazione del Darfur, il conflitto sarebbe già terminato dal momento che alla sua radice c’è la lotta per l’accaparramento di risorse tra nomadi e contadini. Gran parte del denaro è stato speso invece per i peacekeeper, il che non ha aiutato. È tempo che l’Unamid lasci il paese gradualmente, in accordo con le parti e nel rispetto della sovranità del Sudan. Siamo un governo sovrano che decide dove e quando realizzare la pace nel nostro paese”, ha poi chiarito il capo della diplomazia sudanese. La zona montuosa del Jebel Marra “è l’unica area in cui sono ancora presenti dei gruppi ribelli. Si tratta della seconda catena montuosa più alta dell’Africa ed è molto difficile stanarli da lì”. Fatta eccezione per quest’area, tuttavia, “il Darfur è libero dalle attività dei ribelli”. I combattimenti nel Jebel Marra hanno causato lo sfollamento di decine di migliaia di persone e la situazione umanitaria è seria. “I combattimenti hanno provocato lo sfollamento di 49 mila persone. Il governo del Sudan li sta aiutando con il sostegno delle agenzie Onu, fornendo loro ripari e case, e al momento sono tornati tutti nelle loro aree di provenienza tranne 9 mila che saranno trasferiti a breve”, ha chiarito il ministro degli Esteri di Khartoum. Riguardo alle burrascose relazioni con il vicino Sud Sudan, e alla recente formazione del governo di unità nazionale, Ghandour si è detto convinto che esso possa “certamente favorire un miglioramento delle relazioni” fra Khartoum e Giuba. “Le frontiere fra i due paesi sono state chiuse nel 2011 (anno della secessione del Sud Sudan), poi nel settembre 2012 i due presidenti (Omar al Bashir e Salva Kiir) hanno siglato nove accordi, di cui uno prevedeva la smilitarizzazione delle zone di confine e un accordo sulla libera circolazione di beni e persone. Il Sudan ha iniziato ad attuare l'accordo, l’altra parte no. Nel 2015 il Sudan ha preso la decisione unilaterale di aprire le frontiere. La decisione è stata ben accolta sia dal popolo del Sud Sudan sia da quello del Sudan ed è stata presa sulla base dell’impegno di Giuba a rispettare gli impegni derivati dagli accordi del 2012. Non lo hanno fatto, di qui decisione di chiudere nuovamente le frontiere”, ha sottolineato Ghandour. La questione, ha poi annunciato il capo della diplomazia sudanese, sarà discussa il prossimo 25 maggio in occasione della visita a Khartoum di una delegazione sud sudanese guidata dal ministro della Difesa e dal ministro degli Esteri. “Speriamo che la formazione del governo di unità nazionale, per cui il Sudan si è speso molto, possa dare un nuovo impulso alla normalizzazione delle relazioni con Giuba. Ieri ho incontrato la mia controparte (il ministro degli Esteri sud sudanese Deng Alor Kuol), con il quale abbiamo concordato di continuare a lavorare insieme per la normalizzazione delle nostre relazioni”, ha aggiunto. Uno dei principali nodi attrito fra i due paesi è rappresentato dalla tassa di transito sul petrolio prodotto in Sud Sudan e destinato alle raffinerie sudanesi. Sulla questione “non c’è stato un accordo”, ma da parte di Khartoum è stata avanzata la proposta di rivedere il prezzo del trasporto “a beneficio del Sud Sudan”, che non ha altre risorse naturali da sfruttare, ha precisato Ghandour. “Al momento della secessione di Giuba, nel 2011, noi abbiamo proposto di farci pagare una percentuale sui prezzi al barile, che all’epoca ammontava a 112 di dollari. Il Sud Sudan ha rifiutato la proposta e ha insistito per pagare un prezzo fisso, anziché una percentuale. Oggi, con il crollo dei prezzi del petrolio, l’imposta fissa è diventata molto alta e loro hanno iniziato a lamentarsi”, ha detto Ghandour.
"Il Sudan ha preso di sua spontanea volontà la decisione di rivedere il prezzo del trasporto di petrolio a beneficio di Giuba, che a parte il petrolio non ha alcuna altra risorsa naturale da sfruttare. Noi intendiamo attuare tutti e nove gli accordi raggiunti nel 2012 dai due presidenti e ci aspettiamo che nel prossimo dialogo con la delegazione sud sudanese (in programma la prossima settimana) si possano completare le discussioni sulle diverse questioni. Siamo pronti a raggiungere un accordo perché crediamo che la normalizzazione fra i due paesi possa portare benefici reciproci”, ha aggiunto il capo della diplomazia sudanese. In base all’accordo siglato nel 2012, il Sud Sudan è tenuto a pagare a Khartoum un’imposta di 9,1 dollari a barile per il transito del greggio prodotto nell’Alto Nilo attraverso gli oleodotti sudanesi e una di 11 dollari a barile per quello prodotto nello stato dell'Unità, come parte di un pacchetto compensativo da tre miliardi di dollari finalizzato a coprire la perdita di ricavi causata dalla secessione del Sud Sudan nel 2011. Quest’ultimo pacchetto continuerà ad essere versato ma in un periodo di tempo più lungo, anche se il ministro non ha specificato quanto. Dopo la secessione, nel luglio 2011, Khartoum ha infatti perso il controllo di gran parte dei propri giacimenti petroliferi (circa il 75 per cento) che si trovavano nel sud del paese e che ora sono sotto il controllo di Giuba. Dal canto suo, nonostante possa amministrare una quantità notevole di petrolio e di impianti estrattivi, il Sud Sudan è un paese in cui le infrastrutture sono praticamente inesistenti.
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