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Speciale difesa: intervento in Libia, gli interessi internazionali

Roma, 14 mar 2016 16:00 - (Agenzia Nova) - L’avvio di un intervento militare internazionale in Libia resta un tema di stringente attualità, ma per consentire che la missione prenda forma è necessaria la formazione di un governo di unità nazionale. Con un esecutivo qualificato come interlocutore credibile, il passaggio successivo sarebbe l’invio di una richiesta di intervento al Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite che poi dovrebbe approvare una risoluzione in merito. Tuttavia, in attesa di questo fatidico “via libera”, la comunità internazionale non è rimasta a guardare, in particolare, Francia, Stati Uniti e Regno Unito. Parigi vanta storicamente nell’area importanti interessi strategici ed economico-commerciali, in particolare petroliferi, e vuole evitare a tutti i costi un’espansione dello Stato islamico nel Sahel, dove i militari francesi sono già impegnati nella missione Barkhane, operazione antiterrorismo che raccoglie tutte le sigle attive nell’area da al Qaeda nel Maghreb a Boko Haram, con 3 mila militari operativi dispiegati in tutta la regione. La posizione dei francesi, così come quella egiziana, sembra sempre più appiattita a quelle di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti: sostegno all’Esercito libico del generale Khalifa Haftar, nessun dialogo con la Fratellanza musulmana al potere a Tripoli. Haftar, quindi, gode anche dell’appoggio della Francia, paese peraltro legato da strettissimi rapporti commerciali con i sauditi, in particolare nel settore della difesa.

Da Washington, intanto si lavora su due fronti: l’amministrazione del presidente Barack Obama, giunta alle battute finali, sostiene l’iniziativa diplomatica per la formazione del governo di unità nazionale, ma intanto tiene in stato di allerta i militari del Comando africano (Africom), già attivati in occasione del raid sulla città libica di Sabrata (area nord occidentale) del 19 febbraio. Anche il Dipartimento della Difesa Usa ha prefigurato eventuali scenari bellici: gli Stati Uniti studiano sia “opzioni militari” che “una serie di altri scenari”, per far fronte alla “seria minaccia” rappresentata dallo Stato islamico (Is). Oltre alla guerra all’Is, tuttavia, gli Stati Uniti hanno anche altri interessi in Libia: nel settembre del 2012 l’ambasciatore Usa Chris Stevens rimase ucciso durante un attacco jihadista al consolato di Bengasi. La questione lo scorso anno è tornata all’attenzione del Congresso ed è servita ad attaccare il presidente Obama e l’ex segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, colpita anche dallo scandalo delle email inviate dal suo server privato. Con le primarie in corso e la Clinton che è al momento la principale candidata fra i democratici per il dopo Obama, quest’ultimo aspramente criticato nell’ultimo periodo per la gestione del conflitto siriano, un massiccio intervento in Libia che ponga fine alla minaccia jihadista potrebbe essere più attraente del previsto per Washington.

Proprio sulla base dell’avanzata dell’Is, che ha messo chiaramente l’occhio sui terminal di Ras Lanuf e Mellitah, anche i britannici sembrano pronti a fare la loro parte. Gli attacchi jihadisti agli hub intimoriscono le grandi compagnie come British Petroleum (Bp), presente nella regione centro-orientale del paese. Bp era tornata in Libia nel 2007, dopo un’assenza di oltre 30 anni, siglando un accordo con la National oil company libica che prevedeva un investimento di circa 900 milioni di dollari nella ricerca di gas e petrolio in una fetta di territorio grande quasi quanto il Belgio. La sicurezza di terminal e giacimenti è una questione che preoccupa anche la francese Total, attiva nell’area di Sirte (centro nord) e di al Sharara (sud ovest), e la stessa Eni, che controlla il giacimento di Wafa, al confine con l’Algeria, e l’impianto di trattamento di Mellitah attraverso Snamprogetti. Il Regno Unito, inoltre, può vantare una certa influenza sulle milizie di Zintan, garanti dell’incolumità di Said al Islam Gheddafi, primogenito del defunto rais. (Res)
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